Adrian Younge ha una passione incredibile per le colonne sonore, per i concept album e per riprendere il passato mettendolo a posto nel presente.
Lo ha fatto, tra gli altri, con Delfonics e Souls Of Mischief ad esempio.
Una discografia immensa, articolata, nella quale a volte sembra difficile potersi immergere completamente perché Adrian Younge è uno di quelli che la creatività la prende sul serio (produttore, musicista, film maker) e con un incredibile senso del multi tasking porta avanti progetti diversi tutti insieme. Facendolo in maniera eccellente.
E poi ha un negozio di dischi a Los Angeles e il suo collaboratore più recente è Ali Shaheed Muhammad di A Tribe Called Quest con il quale lavora alla serie ‘Jazz Is Dead’.
La sua cifra stilistica è quella dell’artigiano.
Lavora in analogico, non usa emulatori, i suoni sono veri e il lavoro certosino.
La sua etichetta, Linear Labs, fa di questo approccio ovviamente un vanto e per quello che mi riguarda di certo c’è la consapevolezza che rispetto a tanto fast food di produttori qui siamo di fronte a uno chef stellato.
C’è anche un legame particolare con la musica “made in Italy” e in particolare con alcune prospettive di un certo tipo di cinema e da qui il suo amore per le colonne sonore.
Che addirittura compone sia per opere esistenti (ad esempio la serie Luke Cage) o per opere che non esistono e ne fa un disco con Ghostafce Killah.
E queste sono solo alcune delle pennellate che possono dare un’idea della complessità di Adrian Younge. Una complessità che trova un punto altissimo di equilibrio nel suo lavoro più recente che è ‘American Negro’.
“We aren’t aware enough of black history, nor of the integral role black people have played in building America. There is an educational sterilisation going on and it’s my duty to make people understand that history of racism – something America has pioneered.”
Un progetto che ha l’ambizione di raccontare 400 anni di storia americana dalla prospettiva dei neri che lui stesso definisce il suo ‘What’s Goin’ On’. E ne ha ben ragione.
Adrian Younge è uno che conosce il mondo in cui opera e sa che non basta un concept album per quanto magistralmente orchestrato come ‘American Negro’ e che questo è un progetto al quale serve di più.
Ecco quindi che oltre alle 26 tracce del disco ci sono un podcast che si intitola ‘Invisibile Blackness’ con interventi di Chuck D, di Ladybug Mecca di Digable Planets fra gli altri che si trova gratuitamente su Audible qui e ‘Tan’ un cortometraggio che arriverà su Prime Video a sigillare la transmedialità del progetto.
Non gli basta più unire i puntini, bisogna mettere quei puntini sulle i. Bisogna fare in modo che la gente possa accedere alla storia del razzismo per capire meglio di cosa si tratta, per fare in modo che le persone siano consapevoli oggi quando vedono il razzismo e non minimizzino questa violenza dietro cliché o stereotipi o – peggio ancora – come qualcosa che non li riguarda.
Adrian ha studiato giurisprudenza, si è specializzato nella branca legata all’entertainment, suo padre era avvocato, lui ha insegnato legge e questa volta sale in cattedra.
“Racism is a learned behaviour and one America developed through building its nation on the backs of slave labour and those economic gains. America is a slavocracy: it is a nation founded on bigotry, and those principles continue today. People might think racism no longer exists because there is no longer a slave system, but they don’t realise the laws that enabled the slave system still put us in a position where we have to jump over insurmountable handicaps to just become equal.”
L’immagine scelta per il disco è quella del linciaggio, lo stesso che Billie Holiday ha cantato in ‘Strange Fruit’ e lo stesso che costituisce in primis la trama di “The United States vs Billie Holiday” che è uno dei film più importanti del 2021.
A pensarci bene l’impiccagione dei neri, nel sud degli USA, semplicemente per il colore della loro pelle era una pratica che i bianchi utilizzavano come teatro, dove i bianchi prendevano i souvenir, dove si scrivevano le cartoline per dire “io c’ero”, uno spettacolo dell’orrore e della bassezza umana, il simbolo agghiacciante di un razzismo sistemico. Lo stesso che ha ucciso George Floyd, Eric Garner, Trayvon Martin, “say their names”…
Lo stesso che penalizza le persone per il colore della loro pelle, che le uccide, che “They can’t breathe”.
Un messaggio forte e chiaro quello di ‘American Negro’ che lo stesso Younge sintetizza così:
“Ho voluto che questo progetto potesse essere una sorta di ‘What’s Goin’ On’ inquadrato dalla prospettiva di James Baldwin che si aggancia a Marvin Gaye e che viene assistito da David Axelrod”
David Axelrod (che è uno dei riferimenti di Adrian Younge insieme a RZA del Wu Tang Clan) preso come unicum nell’attitudine di Younge dentro e fuori dal suo lavoro con la produzione per la leggenda jazz Cannonball Adderley, con Lou Rawls e come musicista poi campionato anche da Dj Shadow nel monumento ‘Endtroducing’ (ad esempio in ‘Midnight In A Perfect World’) , da Macy Gray (I Try), e Dr Dre (The Next Episode) per citare alcuni degli oltre 500 artisti che hanno “preso” da Axelrod.
“Quindi ci ho messo il soul e la psichedelia ma ho voluto comunque che fosse estremamente accademico e ho usato lo spoken word. Ci sono io che parlo per alcuni minuti spiegando i temi e poi parte una canzone che riflette quello di cui io stavo parlando. Ho voluto creare quel meccanismo della tradizione orale tipica della cultura black come se questo disco fosse la continuazione di quelle conversazioni. Per me l’anima, il soul, è quando tu parli con l’aiuto dei tuoi antenati e per me questo lavoro è semplicemente la continuazione di quest’anima, libera, perché nessuno ci viene a dire quello di cui possiamo parlare. Questa volta avrei potuto metterci soltanto della musica, ma avevo bisogno di veicolare un messaggio chiaro, preciso, perché posso comunque fare anche altra musica ma non ho tante possibilità di parlare alla gente di questi argomenti e farli entrare nel mio mondo”.
Puoi ascoltare The American Negro qui:
Lo stato dell’ RnB – che è un’etichetta più che un genere musicale – è oggi quanto mai irrequieto.
I cambiamenti sono all’ordine del giorno (e proprio per questo la sua descrizione viene aggiornata più spesso del tuo feed di Instagram e proprio per questo non me la sento di definirlo perché se cambia continuamente come diamine lo definisci?).
Se vogliamo rifarci a qualche pagina precedente di questa nostra sola, unica, grande storia, non possiamo che osservare come l’influenza di altri “generi” vicini (il soul, il rap, il jazz, l’onnipresente gospel) sia sempre stata presente e altrettanto sempre osannata dal pubblico. Che comunque accoglieva di buon grado le escursioni in musica classificabile comunque come vicina. Un po’ come fa l’algoritmo di Spotify quando ti dice che “potrebbe piacerti anche…”
C’è stato, però, un fattore di sicura rottura che spesso non viene preso in considerazione nella nostra sola, unica grande storia.
È internet.
Già, perché internet ha i link, e con i link salti di palo in frasca (tipo se parti da questo link non so dove vai a finire, magari anche fuori da questo sito) e così le linee di demarcazione (e le etichette, sì, anche le etichette) vanno un po’ a farsi benedire. E anche l’algoritmo, qualunque esso sia.
Perché seguire un discorso con i link smaterializza, devia, porta altrove. Possibilmente fuori dalla bolla.
Volendo partire da quello spazio empirico che sono diventati i Grammy, ora per l’RnB di categorie ce ne sono diverse: la Best RnB, la Best Traditional, la Best Progressive. Questo perché è stata cancellata la ‘Urban’ da quando si è deciso che Urban sia un termine razzista (e su questo personalmente sono d’accordo, al di là del significato che nel contesto è razzista proprio perché ‘Urban’ fa schifo).
“Urban è una parola in codice che l’industria usa per la musica che non gradisce. Ma se il mondo la ama… allora è pop”. (Tricky Stewart, produttore di ‘Umbrella’ di Rihanna)
Diventa quindi difficile orientarsi, soprattutto per il pubblico che alla fine non ci capisce più un accidenti, ma probabilmente nemmeno si pone il problema.
Soprattutto perché tutto quello che non hai capito lo metti nel “Progressive” e te la cavi con poco senza esporti. E alle persone, quando ascoltano la musica che a loro piace, della tua etichetta non interessa nulla. Lo stato dell’RnB è proprio questo: per quanto tu lo voglia incasellare, lui non ci sta.
Si diceva, anche per l’RnB è arrivata “l’internet”. La prendo un po’ larga.
Prendo il caso del Lights On Festival del Settembre 2019.
Questo festival organizzato da H.E.R. e dal suo team ha raccolto 14.000 persone in un palazzetto per ascoltare quello che viene definito come “nuovo RnB”. Forse è il “progressive RnB” di cui parlano i Grammy. O forse nulla di tutto questo.
Di fatto a questo festival si sono esibiti Daniel Caesar, Ari Lennox, Summer Walker, Kiana Ledè, DaniLeigh, Lucky Daye.
C’è chi dice di averli visti H.E.R. e Jeff Robinson (che precedentemente ha lavorato con Alicia Keys) sorridere nel vedere il sold out fatto da artisti che hanno meno di 25 anni in media e che ha venduto tutti i biglietti in uno spazio temporale pari a mezz’ora.
Sì, va bene, ma cosa c’entrano soul rap jazz gospel, le categorie dei Grammy e un festival di emergenti in America e internet con me? Lo so che te lo stai chiedendo.
Se negli anni 90 (e anche 00 ad essere onesti) le componenti dell’RnB erano i generi adiacenti che facevano capolino e in particolare il gospel era decisamente evidente, oggi è un meltin’ pot di cose, sono tutti i percorsi dei link che spezzano le descrizioni e le definizioni.
Sembra che oggi chiunque venga inserito nel calderone dell’RnB abbia la sola urgenza di affermare che “ok, la mia musica ha a che fare con l’RnB ma non mi mettere in una scatoletta perché potrei seguire un altro link e pur restando fedele a una matrice RnB tu non sapresti più da che parte sei voltato quando mi ascolti”.
Dove prima era facile individuare il gospel, dove era il festival del melisma (l’ho raccontato qui) oggi la contaminazione vede allineati dei pianeti molto più strani e meno identificabili.
C’è RnB, rap, Afrobeat, rock, pop, latino, elettronica, ambient. E non ci stanno più nelle radio, fanno confusione, non sono così immediati da essere riconosciuti al volo, non sono così….pop da essere rassicuranti per occupare un posto tra un whatsapp dell’ascoltatore e il commento al post preso dai social fra una pubblicità e l’altra (il discorso delle radio è serissimo e doloroso, non so se avrò mai la voglia di affrontarlo e non c’entra con lo stato dell’ RnB).
Si chiama progresso, bellezze. Non Progressive (che non ha senso), ma progresso. Del resto dovremmo esserci abituati.
Anche perché se tutti avessero semplicemente cantato come Sam Cooke noi non avremmo mai avuto Marvin Gaye e se oggi tutti cantassero come Mary J Blige noi non potremmo avere la quantità enorme di bella musica che possiamo ascoltare e che proviene sempre dalla storia della black.
Insomma, oggi non avremmo né Frank Ocean né SZA, né The Weeknd, né Serpentwithfeet né Nakane né 6Lack e nemmeno Drake o Ella Mai. Facciamocene una ragione.
Loro sono artisti nati da contaminazioni, da lungo lavoro su addizione e sottrazione di elementi presi dalla tradizione o dalla contaminazione e alcuni inventati di sana pianta o presi dai link.
Forse è proprio per tutte queste cose che o non ne parliamo più o lo chiamiamo tutto RnB. Identificando una sensazione, una conseguenza, un effetto.
Oggi lo stato dell’ RnB ha anche parecchi svantaggi perché è proprio questa sua (nuova?) natura a fare in modo che le luci della ribalta non siano accese completamente su di lui. Fa lo schivo, si nasconde e quindi per il mass market diventa irrilevante, ti dicono che è morto, che non esiste più. E invece, semplicemente, si è spostato un po’ più in là.
Non un’etichetta messa su dei dischi per facilitarci la vita. Lo stato dell’ RnB oggi è questo, ed è bellissimo perché si apre a mille nuovi colori.
Tutto sommato anche questo fa parte delle cose belle della musica black.
RnB in Anno Domini 2021.
Etichette musicali per complicarci la vita: RnB e Hip-Hop, fra le troppe.
A prescindere dal fatto che personalmente preferisco chiamarla tutta “black music” che poi è la radice da cui arriva tutto e si spinge indietro, più indietro del blues.
Comunque per mettere a fuoco lo scenario parto da due etichette. RnB e Hip-Hop.
Oggi come oggi queste due etichette sono messe spesso insieme, addirittura sovrapposte nella stessa canzone, definendo, in ampia misura, cosa intendiamo per RnB.
Un viaggio che dura da 50 anni e che oggi vede giungere in queste grandi famiglie artisti come Lizzo o The Weeknd.
Alla faccia dei puristi che ahimè sprecano un sacco di tempo in discussioni senza senso e senza uscita su cosa sia o no RnB. Che poi è soltanto un’etichetta, qualcosa di effimero per definire la musica che per sua stessa natura è indefinibile.
Il 1990 è stato uno spartiacque: in America è nata la Hot RnB Singles Chart dopo che per otto anni quel calderone era stato battezzato Hot Black Singles.
Razzista, terribilmente sbagliato, etichetta coniata per relegare quella musica ad un ascolto pressoché consumato da neri.
Tanto che lo stesso RnB si è tolto da quell’etichetta da solo, travalicando gli steccati del colore e puntando alla sua essenza: a quello che comunica, a prescindere dalla melanina dell’artista che sta comunicando.
Grazie a Dio. Anche se ancora per molti il razzismo sistemico vive anche qui. C’è tanto lavoro da fare, ancora.
Che poi inizialmente l’RnB era in commistione stretta con il new jack swing (altra parrocchia ma sempre black music anche qui) ovvero un amalgama creativo fra l’RnB degli anni 80 e la produzione Hip-Hop. Hai presente ‘Remember The Time’ di Michael Jackson?
Arriva il 1995. E con lui anche la dimostrazione che l’RnB poteva essere venduto, e bene, che poteva essere in vetta alle classifiche, e per molto, che poteva essere una musica trasversale e che potesse piacere a neri, bianchi, gialli, viola e anche ai blu.
Nel 1995 esce ‘Fantasy’ di Mariah Carey.
Otto settimane in cima alle classifiche (e nel 1995 le classifiche contavano ancora quanti dischi uscivano, scontrinati, dai negozi) e disco che dà il beneplacito all’uscita e al successo ad esempio di ‘Mo. Money Mo’ Problems’ di Biggie e ‘Crazy In Love’ di Beyoncé con JAY-Z.
Vuoi chiamarlo ancora Pop o ti decidi a chiamarlo RnB?
Secondo me puoi chiamarlo come ti pare, ma di fatto è qualcosa che ha fatto la storia.
Perché poi, qualche anno dopo, arriva anche Rihanna e ci regala ‘Pon De Replay’ e poco dopo ‘What’s My Name’.
Come lo chiami, adesso?
Come la chiami la musica che fanno Justin Timberlake e Alicia Keys all’inizio dei duemiladieci, come le chiami ‘Suit And Tie’ e ‘Girl On Fire’?
Lo sostengo da sempre.
Il bello della musica black è questa capacità di mutare, di assorbire quello che le sta attorno, di spiazzare chi la ascolta con una sfumatura nuova, con un’altra rivoluzione, con un nuovo codice che non ti interessa nemmeno leggere ma adori “sentire”.
Ecco perché è RnB (che resta sempre una piccola misera etichetta) Mariah Carey, lo è Beyoncé, lo è SZA, lo è Justin Timberlake e lo è Frank Ocean, lo è R.Kelly e lo è Miguel.
Il problema di definire alcuni di questi “pop” e altri invece “RnB” è tutto nella tua testa. Se ha successo diventa pop. Niente di più sbagliato. Se non corrisponde ai criteri della musica delle classifiche “black” degli anni ’90 (quando l’RnB era quasi un’altra cosa rispetto ad oggi ed era pop-olare perché stava in cima alle classifiche ed era ovunque).
The Weekend non fa pop (del resto ci sono smaccate differenze fra ‘Blinding Lights’ e una qualsiasi canzone dei One Direction – mi pare) a meno che per “pop” non intendi “popolare”, “riconosciuta dalla massa”, e allora te lo concedo.
Ma poi ti ritrovi con ‘Good Days’ di SZA. E lì c’è anche il neo soul, incorporato nella sua essenza tradizionale. E ti fermi a pensare un attimo a tutto questo.
E improvvisamente ti viene in mente una canzone di Lauryn Hill. Qualsiasi.
Perché il suo album è il posto da cui tutto ha avuto senso, ha avuto inizio, ha avuto il coraggio di uscire con un disco che ha definito quello che oggi chiamiamo ancora RnB. Nonostante RnB sia un concetto ormai diventato soggettivo, sfumato, che non ha contorni e codici specifici a meno che l’utilizzo del melisma* sia cardine per definire una musica.
Il che equivale a dire che se c’è la chitarra allora è rock.
E poi, via, il melisma dal 2007 è diventato roba da boomer: chiedilo a Keyshia Cole o a Leona Lewis, per dirne due.
Quello che interessa, la discussione che sarebbe bello nascesse è quella che non cerca di capire cosa sia successo ma cerchi di capire oggi quali siano le sfumature del presente, quelle sfumature che fra trent’anni andranno a finire su un articolo come questo dove qualcuno continuerà quella serie di nomi.
Mettendoci Gallant, Kenyon Dixon, Avery Wilson, Anderson .Paak, Lianne La Havas, Jazmine Sullivan, Brik Liam, Kori James…
*melisma = ornamento melodico che consiste nel caricare su una sola sillaba del testo un gruppo di note ad altezze diverse. Chiamato anche “ghirigoro” nel mondo del Karaoke. Esempio illustre: Visions Of Love di Mariah Carey o le differenze in I Will Always Love You fra Dolly Parton (senza melisma) e Whitney Houston (il festival del melisma). Si agevolano gli esempi
Mariah Carey:
Dolly Parton:
Whitney Houston:
Blackness è la storia degli uomini. E il libro di Carlo Babando.
“Bianco e nero, padrone e schiavo, come scritte al neon che si illuminano nel presente sfruttando e alimentandosi con la corrente nel passato. Ma quando inizia per l’esattezza quel passato?”
(Carlo Babando, "Blackness")
Già, ma chi è Carlo Babando?
È quello che scrive di musica su Blow Up, che spaccia dischi in centro a Bologna da Semm, che insegna storia alle superiori, che si dedica a un programma all’interno delle carceri minorili, che a volte la butta in caciara e guida un podcast, che ha scritto un libro su Marvin Gaye che ne dipinge nitidamente l’umanità all’interno di un contesto complicatissimo come la musica – nera – a cavallo tra gli anni 60 e 80.
Carlo Babando è anche quello che vedi nella foto qui sopra e che mi ha raccontato queste cose, partendo dal titolo del suo libro, Blackness.
Che è una storia di uomini dove ci sono la politica, la musica, la storia, la gloria e il fallimento, l’orgoglio e la paura.
Che è una storia attorno alla quale abbiamo chiacchierato in una delle nostre telefonate-fiume. Questo dialogo lo trovi qui sotto: ho tolto le mie parti perché è più bello stare a sentire Carlo, a voce sola, in prima persona.
Parto dal presupposto che la blackness sia un elemento radicato nella dimensione nera, non necessariamente afroamericana.
La blackness può essere comunicata e in qualche modo compresa da un bianco ma la blackness non riguarda e non ha mai riguardato i bianchi.
Se parliamo di neri, l’essere nero non ti conferisce automaticamente l’essere “Blackness Approved”, non hai un certificato.
La blackness è qualcosa che coltivi e che ha molto a che fare con la storia dell’Africa e del suo popolo.
Storica, sociologica e che un nero che sia americano o italiano non può non conoscere.
Quando parlo di blackness e cultura nera, in ogni ambito in cui mi accade – quindi sia nelle scuole quando insegno storia che quando parlo e scrivo di musica – entra sempre e comunque in ballo la cultura africana. Spesso quella non contemporanea.
Guardando a come stanno le cose oggi risulta evidente come Africa e America siano sempre più separate.
Uno degli episodi che chiariscono questa cosa è quello relativo alle critiche che ha ricevuto Beyoncé da parte della comunità africana e le accuse di essere stata troppo edulcorata nel rappresentare la blackness all’interno del suo progetto legato al Re Leone della Disney.
Spostando il discorso solo sull’Africa non si può prescindere dal tenere in considerazione il fatto che l’Africa è un continente. Gli africani hanno rifiutato l’immagine che viene data di loro come semplici uomini “pitturati” e con le gonnelline di paglia come invece lo stereotipo ha sempre raffigurato.
Da qui inizio a porre delle domande, partendo dal rapporto tra Africa ed Europa per arrivare fino all’ RnB contemporaneo attraversando gli ambiti quindi della storia, della musica e della letteratura.
Proprio in letteratura c’è un libro importante, quello di Booker T. Washington, che spesso viene preso come “anno zero”. Certo, la figura di Booker è importante, è una figura centrale della politica statunitense e conoscitore dell’Europa.
Ancora più indietro però dovremmo tornare a Leone L’Africano.
Quello può essere un altro punto di partenza, la convenzione di un “anno zero” allineando il rapporto tra continente Africano e continente Europeo attraverso la prospettiva mediata dalla cultura araba nordafricana.
Leone visse a Roma, tanti secoli fa, e rappresenta uno degli anelli di congiunzione tra le culture africana ed europea a cavallo con la scoperta dell’America.
Spostandoci sul piano della musica è facile notare che la prospettiva si muove a prescindere da queste coordinate.
Se pensi al triangolo atlantico che unisce i tre vertici Africa, America ed Europa e alla storia al suo interno è facile capire che sia una storia ancora in divenire.
Noi contemporanei ci riferiamo oggi, quindi, dentro questo triangolo, al periodo che sta a cavallo tra il medioevo e la storia moderna e usiamo come cesura fra i due momenti storici la tratta degli schiavi.
Possiamo partire da lì, è vero, ma la storia tra uomini neri e uomini bianchi, tra Africa ed Europa è iniziata molto prima di questa data, il nostro “anno zero” è molto tempo prima.
Pensa anche alla Bibbia dove questa storia è presente nel cantico dei cantici, pensiamo alla Regina di Saba:
“Sono nera ma bella, o figlie di Gerusalemme, come le tende di Kedar, come i padiglioni di Saba”
(Cantico Dei Cantici -1,5)
E anche al fatto che nelle rappresentazioni della natività ci sia Baldassarre, che è uno dei tre Magi, ed è nero ma è anche quello dei tre che è più distante da Cristo.
Quello che io mi sono proposto è l’analisi di questo rapporto tra bianchi e neri, un rapporto che non vede necessariamente prevalere gli uni sugli altri.
Si parla di razza con troppa faciloneria, da entrambe le direzioni.
Diventa necessario entrare nella complessità della storia dell’Africa.
E solo facendo questo sforzo possiamo renderci conto della logica che ribalta uno stereotipo della storia europea.
Diventa infatti impossibile pensare all’Africa come protagonista necessariamente e ineluttabilmente perdente.
Bisogna conoscere i rapporti tra i due continenti per capire come è andata, anche quando si parla di tratta degli schiavi perché anche qui dobbiamo andare indietro nel tempo, ben prima delle riunioni degli schiavi in Congo Square a New Orleans.
Sicuramente quello di Congo Square è un momento importantissimo: da lì facciamo risalire la nascita del jazz e delle contaminazioni tra la poliritmia africana e la melodia europea, ma ancora una volta non siamo andati sufficientemente indietro nella storia.
La schiavitù era un istituto che in Africa aveva una tradizione secolare che vedeva muoversi uomini da una parte all’altra del continente e arrivare in Europa ancora prima che gli europei raggiungessero Capo Bojador e quindi l’africa subsahariana.
Esisteva già, pur avendo connotazioni diverse da quelle impostate dalla cultura europea di allora. La condizione di uno schiavo in Africa (prigioniero di guerra, ad esempio) non era uguale alla condizione dello schiavo nelle colonie americane ed era ancora diversa dalla condizione di schiavo all’interno della cultura dell’Impero Romano.
Possedere schiavi, in Africa, voleva dire avere un mezzo per lavorare la terra poiché essendo diverso il concetto di proprietà privata nell’africa subsahariana era quindi necessario impiegare il capitale umano (oggi le chiameremmo risorse, nda) nell’agricoltura. Non si possedeva davvero la terra, ma i suoi frutti.
Lo schiavo era, tra le altre cose, anche uno dei mezzi che servivano per coltivare i campi. Il suo era a tutti gli effetti un trattamento diverso proprio in relazione a una storia diversa dell’istituto della schiavitù.
Nel libro ho cercato di semplificare questi passaggi che ho distillato anche dall’enorme lavoro di John Thornton, eminenza in merito alla storia del rapporto tra Europa e Africa, permettendo di comprendere a grandi linee queste differenze fondamentali.
È quindi importante che questo concetto, questo panorama storico venga condiviso e fatto arrivare soprattutto a coloro che sono inclini a credere che il bianco sia superiore al nero, che ci sia la consapevolezza di non essere schiacciato da un’ipotetica e non vera superiorità del bianco europeo.
Il bianco europeo non è arrivato in Africa dotato di intelligenza superiore che gli ha permesso di ingannare il popolo di un intero continente.
Il popolo africano non è mai stato un popolo di ingenui.
C’è anche Amiri Baraka che ha portato avanti questo pensiero in maniera molto dura e quando scriveva di musica lui lo faceva anche per parlare di molto altro.
Oppure, anche se in maniera più edulcorata, Barack Obama quando rivolgendosi alla società afroamericana criticava il vittimismo dell’uomo afroamericano il quale, spesso, non conoscendo la storia e il passato guarda all’Africa come a una terra di schiavi – e da qui cade nella spirale del vittimismo, del perdente per natura – invece che a una terra di re quale l’Africa è sempre stata.
We’ve got to say to our children, yes, if you’re African American, the odds of growing up amid crime and gangs are higher. Yes, if you live in a poor neighborhood, you will face challenges that somebody in a wealthy suburb does not have to face. But that’s not a reason to get bad grades, that’s not a reason to cut class, that’s not a reason to give up on your education and drop out of school. No one has written your destiny for you. Your destiny is in your hands—you cannot forget that. That’s what we have to teach all of our children. No excuses. No excuses.
You get that education, all those hardships will just make you stronger, better able to compete. Yes we can.
(Barack Obama, NAACP Centennial Convention)
Come dire, vediamo da una parte un’esaltazione, giusta, della cultura africana da parte di artisti africani e dall’altra a volte assistiamo a un’esaltazione dell’Africa da parte degli artisti americani che si rivela più ingenua.
Questo proprio perché spesso quel che manca è la presa di coscienza in merito alla storia africana.
Per dialogare alla pari con un uomo bianco è fondamentale avere la consapevolezza – provata da fatti storici, non da racconti mitologici – che nessuno dei due è superiore all’altro. Questo è fondamentale stamparselo bene in testa.
L’orgoglio africano non ha bisogno di rifugiarsi nello splendore del passato dell’antico Egitto che è sempre visto come qualcosa di più importante rispetto al passato dell’Africa subsahariana. La stessa cultura, la stessa grandezza ci sono in Mali, in Nigeria, sono storie diverse ma sono sempre e comunque storie di re.
Queste sono dinamiche a cui dobbiamo stare attenti.
Le dinamiche interne al continente africano spesso non arrivano in Europa, ma nemmeno negli Stati Uniti.
L’immaginario egizio che spesso ha connaturato jazz e soul storicamente non è aderente al retroterra culturale di chi è arrivato negli USA con le navi negriere dalla Africa occidentale.
Oggi c’è bisogno di parlare di determinati argomenti.
Anche se a volte le chiavi sono troppo ingenue da parte degli artisti e dei media.
Dopo l’ennesimo omicidio, quello di George Floyd (e andiamo oltre al fatto che lui fosse colpevole o meno, non è nemmeno più quello il punto della discussione), dove questi fatti accadono come se fossero la normalità anche di fronte a telecamere che li riprendono e li documentano, allora è ancora necessario parlarne.
Quello che è successo “dopo George Floyd” ha rappresentato a Minneapolis la presa di posizione di un movimento.
Black Lives Matter non è mai riuscito a ottenere un riconoscimento politico durante la presidenza Obama. Pur restando importante a livello di attivismo sociale, come tutti i movimenti rischia di essere frainteso dai media e anche da chi lo sostiene e marcia con il pugno alzato.
Abbattere la statua di Colombo senza conoscere la storia atlantica è un gesto che perde totalmente di senso e fa perdere di senso al movimento. Black Lives Matter non vuole dei leader, si vuole muovere a livello di strada e oggi rischia di perdere il focus perché a lui si fa riferimento per parlare di questioni anche molto secondarie, spogliando il suo scopo e virando su una comunicazione superficiale che porta al fraintendimento e alla strumentalizzazione.
Una buona cassa di risonanza per raddrizzare queste storture è quella di chi il microfono in mano ce l’ha per lavoro, come gli artisti. E con loro chi si occupa di immagini, di cinema.
Quando parlo di Jordan Peel come regista e soprattutto del suo “Get Out”
Cerco di mostrare che il suo punto di vista non banale e non ingenuo è quello che serve a noi oggi.
Non è necessario rivedere il Black Power delle pantere nere: oggi ci sono strumenti culturali diversi, meglio sincronizzati con il tempo che stiamo vivendo.
Non è la capigliatura afro o il basco nero, oggi dobbiamo puntare su altri riferimenti oppure crearne di nuovi.
Il rischio che si corre, ora, è quello di vedere che qualcuno alza il pugno e da questo pretende di legittimare con un gesto la sua musica prendendo però le distanze, ad esempio, dal disco funk. E per altro nel disco funk c’erano disseminati un bel po’ di argomenti spinosi per l’epoca.
Mi capita, lavorando in un negozio di dischi, di entrare proprio in queste dinamiche. Ad esempio capita che chi oggi supporta Beyoncé, ai tempi delle Destiny’s Child avrebbe ignorato e forse anche schifato la loro musica.
Poi accade molto spesso che la stessa Beyoncé metta insieme i due mondi, apparentemente lontanissimi tra di loro.
Lei si dichiara donna emancipata, ammette al tempo stesso di essere totalmente immersa nel black capitalism, poi va a Coachella e giustamente piazza sia ‘Freedom’ che ‘Lift Every Voice And Sing’ che ‘Single Ladies’.
E il suo ascoltatore con questa cosa ci deve fare pace.
E oggi Beyoncé forse non sarebbe stata Beyoncé senza i pezzi delle Destiny’s Child così come da un’altra parte non ci sarebbe mai stata ‘What’s Goin’ On’ senza ‘Ain’t No Mountain High Enough’.
Quando nel libro parlo di musica pop(olare) entro in queste zone d’ombra, nelle dinamiche all’interno del mercato discografico (e sottolineo mercato) dove l’obiettivo finale che dobbiamo sempre tenere presente è quello di vendere.
Certo si può far passare un messaggio politico, ma il messaggio deve pur sempre passare dentro un mercato.
Come quanto accaduto per la Blaxploitation.
Certo, film di frontiera, film rivoluzionari per certi versi, ma sempre all’interno di un mercato – quello cinematografico – che puntava a far staccare biglietti alle sale.
Ti confronti con il mercato, ci sei dentro, è ineluttabile.
E noi da questa parte dobbiamo farci pace con questa cosa perché non è l’essere un artista di nicchia che ti legittima nel portare avanti determinate istanze, così come non lo è il contrario.
Su questo argomento noi la dobbiamo smettere.
Bisogna sporcarsi le mani, la storia della musica black è tutta collegata.
Anche facilmente collegabile basandosi semplicemente sui dati biografici piuttosto che artistici.
Sono tutte traiettorie di uomini e donne calati in un contesto storico. Dal Doo Wop al rap, alla musica che esce oggi, sono le traiettorie umane che tracciano la blackness.
E il libro, Blackness, tenta di porre più domande piuttosto che dare risposte.
L’ho concepito come moto generatore di quesiti, è una indagine, un mettere i bastoni tra le ruote a coloro che vorrebbero che tutto fosse andato proprio così come ce lo raccontano gli stereotipi e i cliché cercando di raccontare invece l’orgoglio nero che è – a conti fatti – quello che io intendo per blackness.
Ho scritto ponendomi nella mia solita prospettiva: quella dell’uomo.
Io sono sicuro che c’è una grossa parte di chi popola questo paesaggio di blackness che vuole informarsi, approfondire, non arrendersi ai cliché.
Incontro adolescenti che si approcciano al rap con curiosità e che se guidati attraverso i contenuti che abbiamo disponibili sui media sono certo possano essere stimolati correttamente per andare oltre al dato che arriva loro da YouTube ed entrare in una prospettiva di approfondimento e conoscenza.
Scavare nei contenuti per arrivare al nocciolo. Alla storia degli uomini. Alla blackness.
Se facciamo un salto nel tempo fino a oggi, è facile accorgersi di come la musica afroamericana, soprattutto nell’ultimo ventennio, abbia mostrato di voler recuperare simboli e suggestioni attingendo proprio da quello che è stato definito il suo periodo “classico”. (…) Lo sta facendo, ancora una volta, frullando senza soluzione di continuità ciò che è stato realmente con quello che, invece, si vorrebbe soltanto fosse successo: un bell’abito da sera dal taglio vecchio stile ma, al tempo stesso, perfettamente al passo con i tempi. (…) Un grattacielo che ancora è tutto in via di costruzione, pieno di impalcature e ponteggi, ma che potrebbe venire fuori più bello che mai; o franare miseramente sotto il suo stesso peso. (Carlo Babando, “Blackness”)
Se sei arrivato fino a qui, dopo tutte queste parole, ci vogliono i suoni.
E i suoni sono presi dalle pagine di ‘Blackness’ anche se si fermano più o meno a metà del viaggio (una scelta precisa, quella di fermarsi in questo caso a ‘What’s Goin’ On’ di Marvin Gaye poiché una playlist “ufficiale” c’è e la trovi qui). Per l’altra metà ti serve un sacco di curiosità ma di certo molto di quello che troveresti in una playlist più lunga l’hai già inserito nelle playlist che ascolti di solito.
Aaron Taylor è di Londra e la sua musica è in giro dal 2016 quando, quasi timidamente, ha fatto uscire ‘Still Life’.
Un EP che lo presentava al mondo, in maniera elegante, attraverso le tracce che risentono di nu-soul e jazz attraverso la lente di ingrandimento di un artista che “si è fatto da solo” con una perla quale ‘Lesson Learnt’.
Aaron è autodidatta, ha imparato a suonare e comporre a orecchio esercitandosi in chiesa e a casa sua. Da quei primi timidi passi di strada ne ha fatta tanta.
Quello che resta inalterato, quattro anni dopo e con l’arrivo sia del primogenito che dell’album di debutto, è il carattere unico e “Souleil” della sua musica (musica del sole e dell’anima/soul). Che sembra sempre in bilico, pronta a diventare un incidente, e che invece si risolve nella difficilissima arte di lasciare una sensazione di benessere per chi la ascolta.
Per spiegarmi meglio c’è ‘Be Alright’ dal suo secondo EP, “Better Days”
Aaron Taylor fa della consistenza artistica la spina dorsale del repertorio. Attraverso il terzo EP, “The Long Way Home” che precede di due anni il disco di debutto ci presenta anche la parte più introspettiva con “I Think I Love You Again” che coniuga la vibra di D’Angelo con quella di Funkadelic in un viaggio attraverso titoli che sembrano raccontare una storia da “Saw You In My Dreams” fino appunto al ritorno a casa enunciato dal titolo di “Home” che saluta il lavoro con i profumi jazz.
Il percorso fin qui è stato di recente raccolto in un doppio vinile disponibile sullo store del sito ufficiale prima dell’annuncio del vero e proprio album di debutto, Icarus.
‘Icarus’ parte dove finisce ‘The Long Way Home’ anche se sono passati due anni, è nato il primogenito ed è cambiato – almeno un po’ – l’universo artistico.
‘I Want That Fire’ è apertura, anche di ali. Come per il mito greco, Icaro, appunto, con la sua aspirazione di libertà totale e di padronanza del volo. Sappiamo come finì per Icaro, ma nel caso di Aaron Taylor il sole non è così vicino da bruciare le ali.
C’è, però, tutta la forza di arrivare vicino a qualcosa, di voler raggiungere certe quote, di soddisfare un desiderio che parte da dentro l’uomo.
E Aaron Taylor arriva, pulendo tutto quello che non è canzone. Limitando le composizioni che puntano più al groove piuttosto che a una forma decisa e delineata. Piazza una collaborazione con Lalah Hathaway e una con Benny Sings e poi si tiene per sé ‘Flowers’.
Uno dei punti più alti del disco così come ‘Be My Muse’ è una spinta in avanti, sbilanciata, perfetta per quello che oggi viene definito “r&b contemporaneo”.
‘Shooting Star’ con Benny Sings è qualcosa di completamente nuovo nel repertorio di Aaron Taylor. Una canzone velata e che presta il fianco ai trattamenti elettronici, sospesa quasi in mezzo al disco e una di quelle tracce che con il passare degli ascolti diventa da straniante a fondamentale.
Icarus è un disco rilassato sui suoni, discreto ed elegante nel suo modo di porsi così come elegante è sempre stata l’arte di Aaron Taylor. Un nome non solo da tenere sul radar ma da supportare per i regali che ci ha fatto e che sicuramente ci farà ancora per parecchio tempo.
Con Brik Liam non puoi non iniziare una chiacchierata senza partire da uno dei suoi simboli che è (stato?) il pallone rosso.
Quel pallone ha iniziato con il suo esordio, “Extended Play” poi è diventato protagonista per “TALP, The Ascension LP” quando è stato pronto per lasciarsi alle spalle molte cose per poter volare più in alto e arrivare, una volta altissimo, a porre la domanda:
What’s the matter, Brik?
E a volerla proprio vedere tutta, questa domanda sembra essere stata posta – dato il tono, il contenuto e tutta la storia artistica di Brik Liam – da Marvin Gaye.
“Penso che come prima cosa quando si tratta della mia musica sia mio dovere poter far trasparire le emozioni e di non essere spaventato dal metterle a nudo. Del resto io sono convinto da sempre che la musica sia comunione di spirito e per tanto se non metti te stesso, il tuo spirito, accessibile a chi ti ascolta non potrai mai entrare in contatto con altri spiriti, con altre anime.
Quello che mi propongo di fare con la mia musica è partire da questo contatto, da questo mutuo scambio e riuscire a fare in modo che chi mi ascolta possa immedesimarsi, possa provare quelle stesse cose e affrontarle, per ripartire. Questo secondo me è fondamentale: esporsi per aiutarsi e aiutare gli altri a superare gli ostacoli che ciascuno di noi ha dentro. Ed essere domani migliori di ieri.
Ecco perché è facile capire che ciascuno dei miei progetti abbia mostrato emozioni, abbia parlato di emozioni e abbia condiviso emozioni. In questo senso forse si può leggere un parallelo con Marvin Gaye in quanto anche lui a un certo punto ha cantato le emozioni, la vulnerabilità, ed è stato capace di esprimersi anche attraverso di essa.”
La connessione anima-anima è la chiave per il codice di Brik Liam e questa chiave è apparentemente incredibile nei nostri tempi moderni dove tutti devono apparire vincenti, al massimo della forma sempre, devono stare tutti sempre bene e vivere una vita sempre meravigliosa.
Può bastare come risposta alla domanda “What’s the matter, Brik?” non fosse che quella domanda è stata portata a noi attraverso la porta di PJ Morton “che io ho incontrato nel 2015, ad un meet and greet, dove io ero il moderatore dell’evento. La prima connessione ci fu lì.
E poi iniziammo a collaborare prima sulla parte artistica della grafica, mi commissionò alcune sue copertine, poi nel 2018 mi chiese di partecipare al suo tour e a fargli da apertura ai concerti. Con lui c’è stata molta intesa. Sai, con PJ mi trovo bene a parlare di qualsiasi cosa, lui ha proprio un bel modo di intendere la vita anche artistica. Con il suo esempio ti fa capire senza tanti giri di parole che quello che devi fare è rimanere te stesso, essere umanamente e artisticamente coerente con te stesso. Forse impiegherai più tempo per arrivare a risultati grossi, ma non ti perderai per strada e non perderai la tua personalità. E la cosa più importante che ho imparato da lui, semplicemente frequentandolo, è che non ti devi mai prendere troppo sul serio. Se hai dei difetti se c’è qualche imperfezione in quello che fai non indugiare nel perfezionismo fine a sé stesso: preoccupati del tuo messaggio, di far arrivare quello alla gente e non la tua perfezione ricercata ad ogni costo.”
Quando lo frequenti per un po’, Brik Liam, anche attraverso i social che gestisce in prima persona, ti rendi conto che ha una voce incredibile, che è uno dei migliori artisti di RnB in circolazione e che è un immenso fan della musica black. Se qualcosa gli piace lui non nega il proprio supporto, siano artisti importanti o siano giovani che si affacciano alla musica per la prima volta. La sola condizione necessaria è che gli piacciano. E infatti è proprio dalla somma di queste cose che possiamo definire Brik Liam come l’artista che incarna perfettamente il senso della parola “condivisione“:
“Artisticamente credo che le collaborazioni siano importantissime. Io credo fermamente che tutti gli uomini facciano parte di una comunità, enorme, e ciascuno si possa occupare della comunità a sé più vicina per dare una mano a migliorarla e ricevere una mano per migliorarsi. Credo sia proprio una necessità fondamentale questa. E io prima di essere un autore, un cantante sono un appassionato di musica. Per questo io amo condividere la musica e non mi importa da chi arrivi.
Mi importa solo che se la ritengo buona e se penso che sia meritevole di essere conosciuta da altre persone sia bellissimo condividerla, ascoltarla insieme, parlarne e imparare dalla musica. Insieme. Succede anche a me: ci sono persone che mi danno l’opportunità di entrare in contatto con persone che non mi conoscono semplicemente condividendo la mia musica quindi mi sembra logico fare lo stesso con chi apprezzo. Viviamo in un tempo in cui ci sono davvero un sacco di artisti là fuori e accade che alcuni di loro pensino che non ci sia più posto, che per loro non ci sarà mai posto là fuori.
Per questo quando a me piace davvero qualcosa non posso fare a meno di metterla in un posto là fuori perché sono convinto che se ha regalato qualcosa a me può regalare qualcosa anche ad altre persone se hanno l’opportunità di ascoltare. Io ho passato un periodo difficile tempo fa e ti assicuro che ogni volta che aprivo twitter e trovavo un messaggio, un tweet o qualcuno mi menzionava per la mia musica è sempre stato un momento di aiuto immenso per tirarmi su, per aiutarmi a superare il momento negativo, è sempre stato importantissimo per me e capisco perfettamente che ci possano essere là fuori tante persone che possono trarre beneficio anche solo da una piccola cosa come questa. E io voglio ricambiare.”
Da qui a chiacchierare di musica è un attimo. Attraverso il disco di Brandy e il Versus con Monica, attraverso il singolo nuovo di SZA e il suo contributo al disco di Ajanee giù fino ad allargare l’obiettivo e parlare di quella sola, unica, grande storia che è la black music e di cui Brik Liam fa parte anche se: “io non l’ho mai vista da questo punto di vista, ad essere onesti, cioè del far parte della lunga eredità che è il patrimonio e la storia della musica black. Io sono un fan della musica black, di coloro che hanno creato questi suoni, questa storia e onestamente non mi sono mai immaginato dentro questa fotografia se non per essere quello che ringrazia per aver ricevuto un dono e che può usarlo per fare in modo che altre persone si sentano meno sole, che non si sentano abbandonate e che si sentano capite in quello che stanno attraversando. Ecco io credo che quei giganti non abbiano fatto quella musica per costruire qualcosa che fosse cool, ma perché avevano bisogno di soddisfare una loro esigenza vitale esprimendo sé stessi come hanno fatto: lo dovevano fare, doveva essere fatto così. Però adesso comincerò a pensarci anche da questo punto di vista.”
E torniamo a quel pallone, quello rosso, quello che è il simbolo che ci accompagna nella storia di Brik Liam “perché quel pallone rappresenta quello che lasci andare, quello che lasci perdere, quello di cui ti liberi in un certo senso. Quando uscì TALP era questo il tema principale, quello dell’amore non corrisposto, quello dei pesi che gravano dentro e non ti permettono di correre, di fare la tua strada. Rappresenta tutto il processo di accettazione e guarigione che devi affrontare per superare le difficoltà. Adesso c’è per me una nuova stagione e sì, durante il periodo di quarantena ho iniziato a lavorare su musica nuova. Ho voltato pagina anche io e adesso non sto scrivendo di cuori spezzati ma dell’altra parte dell’amore, quella parte dove l’amore è donato, dove fa stare bene e dove ha un significato completamente diverso rispetto a quello che ho cantato in passato. Per il resto ho approfittato del tempo in più che ha regalato la pandemia per provare cose nuove, per sperimentare strade nuove come quella di riuscire a far ballare le persone, di portare con la musica quell’energia che serve adesso alle persone per affrontare le difficoltà e il periodo pazzesco che molti stanno attraversando a causa degli effetti di questa pandemia che ci ha colpiti tutti indistintamente.”
Nuova musica, quindi, che va a collocarsi nella stanza che il mondo ha riservato per la musica black e in particolare per l’RnB del quale molti hanno detto che è morto e questi molti – distratti forse da altre cose – non si sono nemmeno accorti che questa musica non è mai andata via, è stata soltanto messa un poco da parte da quelli che accendono le luci del mainstream e poi per me, essendo io di pelle nera, l’RnB è sempre stato importantissimo.
Certo, negli anni 90 e a cavallo con gli anni zero questa musica è andata ‘di moda’ ha scavalcato i confini ed ha sorpassato il pop. Oggi c’è una strana propensione a fare di questo genere musicale qualcosa per nostalgici ma se riprendiamo la battle di Brandy e Monica che ha fatto numeri pazzeschi in termini di visualizzazioni ci rendiamo anche conto che queste artiste meritano supporto per quello che stanno facendo oggi, loro non vivono di nostalgia, vanno avanti. E lo stesso dobbiamo fare noi. Dobbiamo essere capaci di prendere quello che ci ha conquistato nel passato e infondergli l’energia del presente. L’RnB è sempre stato rilevante, oggi riceve molto meno supporto rispetto al suo periodo di maggiore notorietà ma continua a proporre musica incredibile. Devi solo fare un po’ più di fatica e andartela a cercare. Del resto se ascolti altri generi ti rendi conto spesso che prendono in prestito o addirittura rubano suoni e atmosfere dall’RnB quindi questo è un segnale evidente che l’RnB sia vivo e vegeto e soprattutto ancora immensamente influente.
Oggi come oggi ci sono molti artisti, in particolare quelli più affermati, che hanno deciso di esprimersi maggiormente con canzoni lente, ritmi downtempo e va bene così. Dall’altra parte stanno emergendo anche altre prospettive più ritmate che hanno solo bisogno di essere più conosciute. C’è la trap, qui, che si è ritagliata uno spazio ma che si sta ripiegando un po’ su se stessa e sono convinto che accenderà una trasformazione al suo interno e sopra a tutto questo c’è sempre la grande bandiera dell’RnB che sventola. C’è bisogno di più vento, ma sono convinto che presto soffierà molto più forte di quanto non abbia fatto negli ultimi anni.”
E prima di chiudere la chiacchierata c’è una considerazione che parte dalla richiesta di cercare di spiegare a noi, da questa parte del mondo, cosa sta succedendo nella terra degli Stati Uniti d’America.
Perché per noi è qualcosa di talmente assurdo che non riusciamo a comprenderne i motivi “e me ne rendo conto sia incomprensibile per chi non vive questa situazione. Vedi, queste cose sono presenti sistematicamente da così tanto tempo che alla fine per chi non le subisce rappresentano semplicemente la normalità. Una normalità che di fatto viviamo con tanta preoccupazione. Io sono convinto che questo stato di cose, per quanto stia durando da centinaia di anni, non si risolva tanto presto ma sono compiaciuto del fatto che ci siano dei cambiamenti, che questi cambiamenti siano sotto gli occhi di tutto il mondo. E noi per primi dobbiamo rimanere uniti per fare in modo che questo cambiamento continui, vada avanti. Prima che si accendessero queste luci sull’America io ero spaventato, ferito, triste perché queste cose qui sono successe da sempre e a volte ti svegliavi con la paura che qualcuno potesse non accettarti solo per il fatto di essere nato in questo modo, con la pelle scura. Ora ho la speranza che il mondo sia più consapevole, che ci sia stato in qualche modo un momento in cui queste cose sono state dette apertamente, sono state viste da tutti e le persone hanno potuto capire che qualcosa di terribilmente sbagliato stava succedendo. Ho anche la consapevolezza che noi neri siamo resilienti, sappiamo essere resilienti, abbiamo imparato ad essere resilienti per non soccombere.”
Il resto lo trovi sul suo sito o tramite il suo account Twitter. Grazie, Brik Liam.
Sign ‘O’ The Times: Simone Cazzaniga racconta per SLRVLTN il disco più importante di Prince per inquadrarlo meglio in vista della pubblicazione della Super Deluxe Edition.
Unire i puntini dentro un disco fondamentale per la storia della musica, collegare lo scenario in cui è stato pensato e gestito prima di giungere alla sua uscita il 31 Marzo 1987, di come doveva essere secondo l’artista, di come è diventato e di quella che è la struttura portante di un’opera mastodontica tra qualche giorno disponibile in una versione estesa che si collega all’operazione di scoperta dei contenuti del famosissimo ‘Vault’ di Pasley Park: il luogo dove Prince conservava le idee e le canzoni “in lavorazione” che a volte – trasformate – uscivano anni dopo e altre invece sono rimaste là a rappresentare un processo creativo che ha dell’incredibile.
Negli anni ’80 la normalità di Prince nel pubblicare dischi era diventata regolare come il ticchettio di un metronomo. In quegli anni, nel bel mezzo del periodo del Minneapolis Sound, il nostro piccolo eroe raggiunge la sbalorditiva media di quasi un album all’anno, superiore se consideriamo i doppi o quelli prodotti per altri artisti. La sua era una creatività infinita, distribuita senza limitazioni. Una situazione inimmaginabile ai giorni nostri, non tanto per la genialità, che in Prince è la caratteristica principale, quanto per la libera possibilità nel pubblicare dischi a distanza di pochi mesi uno dall’altro, soprattutto se si è vincolati contrattualmente con una major discografica. Quelli però erano altri tempi e la Warner Bros, ben consapevole di aver trovato la gallina dalle uova d’oro, sfumate color porpora, gli ha sempre dato carta bianca sin dal 1978, anno in cui firmarono il loro primo contratto.
Nel 1982 c’è stato il doppio album 1999. Due anni dopo è il turno di Purple Rain seguito a breve da Around The World In A Day. Nel marzo del 1986 arriva Parade, l’album di Kiss e Girl & Boys, ma pochi mesi dopo la sua pubblicazione, Prince inizia a registrare i brani per quello che sarebbe diventato il suo album più importante, ancora più di quel Purple Rain che l’aveva reso celebre in tutto il mondo. Stiamo parlando di Sign ‘O’ The Times.
Il desiderio di raccontare di questo disco è imperativo soprattutto ora a poche settimane dall’arrivo nei migliori Wrecka Stow, gioco di parole usato da Prince in una scena di Under The Cherry Moon per descrivere i Record Store, di una mastodontica Super Deluxe Edition celebrativa di questo album.
Doveroso ripercorrere ciò che portò alla nascita di Sign ‘O’ The Times, partendo da quel Dream Factory che doveva diventare il suo quarto album firmato con i The Revolution. Nell’estate del 1986 Prince arrivò a stilare ben tre diverse configurazioni, partendo da una versione in formato singolo LP per poi concludere con un doppio album composto da ben diciotto canzoni. Purtroppo però, una volta terminato il tour mondiale di Parade, le cose non andarono nel verso giusto: i The Revolution a settembre si sciolgono, o vengono sciolti, ed il progetto Dream Factory viene abbandonato.
Nell’autunno di quell’anno Prince si chiude in studio per incidere le canzoni che andranno a delineare Camille, album che avrebbe pubblicare con lo pseudonimo di … Camille. Otto brani assolutamente funky, dai testi espliciti, tutti interpretati con una voce intenzionalmente distorta. La Warner Bros programma la pubblicazione per il gennaio 1987, rilascia un numero di catalogo 1-25543 e stampa dei test pressing, apparsi solo dopo la sua scomparsa e venduti a caro prezzo ad un’asta di memorabilia a lui dedicata. Viene scelto anche il primo singolo, Shockadelica, ma per cause ancora sconosciute, non se ne fece nulla e la distribuzione di Camille viene bloccata.
Prince non si arrende. Ha talmente tanto materiale che riesce a consegnare alla Warner Bros un triplo CD dal titolo Crystal Ball, una combinazione rivisitata di alcuni brani presi dai due precedenti progetti. La casa di produzione si rende conto che pubblicare un triplo non è la mossa migliore, soprattutto dopo la deludente esperienza del film Under the Cherry Moon. Prince a malincuore, e con non poche ripercussioni nei rapporti contrattuali futuri, accetta la richiesta di ridimensionare la playlist, arrivando al definitivo doppio album Sign ‘O’ The Times, pubblicato il 31 marzo del 1987.
Leggendo questa introduzione, viene spontaneo pensare che Sign ‘O’ The Times sia una raccolta di brani scartati, difettosi o rivisitati. In parte lo è, ma la genialità e la bellezza del disco stanno proprio in questo, perché a tutti gli effetti il lavoro è incredibilmente disordinato: un doppio album variopinto, un cocktail di musica funky, pop, jazz, R&B, soul e rock. Un microsolco ingarbugliato, come l’era in cui è stato concepito, che a suo modo rappresenta la migliore rivelazione di un genio assoluto della musica. Sign ‘O’ The Times esprime la maturazione e il perfezionamento di Prince che diventa una fonte d’ispirazione nel panorama musicale di quel fine decennio, in grado di influenzare anche il sound delle future generazioni di musicisti.
A parte poche eccezioni dove collabora con alcuni membri degli ex The Revolution, tutti i brani sono prodotti, composti, arrangiati e suonati dallo stesso Prince. Le liriche forniscono immagini con contorni netti, assai nitidi e con significati più marcati rispetto a quelli proposti nei suoi precedenti dischi. Troviamo l’amore, quello distratto in Slow Love e quello maturo in Forever in My Life, la libertà di Play in the Sunshine, il casino danzante di Housequake, il sesso ossessivo di It e Hot Thing, l’ambiguità delle relazioni personali in If I Was Your Girlfriend e Strange Relationship. In contrapposizione a questi temi abbiamo episodi legati ad un’analisi sociale più profonda come in Sign ‘O’ The Times e The Cross.
C’è di tutto non manca nulla. La stessa copertina, uno scatto del fotografo Jeff Katz, assume una certa importanza ed anticipa il contenuto. Un mezzo primo piano sfuocato di Prince che si allontana da un disordinato palco color oro, posto in uno scorcio metropolitano, con una cadillac nascosta da una batteria. Sullo sfondo le insegne luminose di locali notturni. Un chiaro riferimento al caos e ai cambiamenti di fine decennio.
Si parte con quello che è stato il primo singolo estratto e cioè la title track Sign ‘O’ The Times. Gli basta solo una drum machine, la storica Linn LM-1, un’essenziale chitarra blues e la sua voce drammatica, priva di falsetti, adatta a descrivere il malessere di una società che vive in bilico tra delinquenza, droghe e malattie. Una chiara denuncia nei confronti della stupidità del mondo. Onore al video, considerato in quegli anni all’avanguardia: niente immagini, solo le scritte del testo della canzone che si susseguono a ritmo di musica, come i titoli d’apertura di un telegiornale.
Si prosegue con I Could Never Take the Place of Your Man, dove il rapporto di coppia è raccontato con un’irresistibile chitarra rock, e con It dove il sesso è morbosamente descritto a ritmo di tastiere e batteria. Abbiamo Housequake un terremoto casalingo capace di far tremare i muri con una miscela di hip-hop, funky e house music e Play In The Sunshine brano festoso che richiama il rock ‘n’ roll degli anni ’60.
Uno sguardo al passato recente lo si può fare prima con U Got The Look, cantata in coppia con Sheena Easton, un brano energico con cori che ricordano tanto il periodo di 1999 e successivamente con Strange Relationship che sfrutta una contagiosa melodia suonata con flauto, sitar e tamburelli che evocano le sonorità di Around The World In A Day.
Come già anticipato quello che più sorprende dell’intero progetto è che non c’è una precisa linea di collegamento tra i singoli brani. Un attimo prima si può ascoltare il funky di Hot Thing e subito dopo si passa ad un pezzo semplice e minimalista come Forever in My Life oppure da It’s Gonna Be a Beautiful Night si arriva ad una ballata come Adore. Il primo di questi due, registrato dal vivo con i The Revolution durante un concerto parigino, è un brano festoso, nove minuti di funky contagioso. Il secondo invece è una poesia soul dove la tromba jazz crea un’atmosfera sospesa e incontaminata. Abbiamo Starfish And Coffee che racconta la routine giornaliera con il ritmo di una filastrocca e The Ballad of Dorothy Parker dove l’incontro tra una giovane cameriera ed il cantante è raccontato su una base acid jazz.
If I Was Your Girlfriend, secondo singolo pubblicato, è un altro capolavoro che getta Prince nel caos sessuale, ma che in realtà mostra il suo profondo rispetto per le donne, fantasticando su come sarebbe la vita di copia se nel ruolo della ragazza ci fosse lui. The Cross è una canzone spirituale dove l’iniziale chitarra acustica si trasforma, con un continuo crescendo, in un’esplosione finale fatta di corde elettriche e batteria.
Tra queste caleidoscopiche note musicali troviamo un brano che, pur non essendo particolarmente rappresentativo all’interno dell’album, nella versione live assume un aspetto a dir poco affascinante. Forever In My Life non ti colpisce al primo ascolto, passa quasi inosservata, ma quello che vi suggeriamo è di ascoltare l’interpretazione realizzata dal vivo e riproposta nel film Sign ‘O’ The Times, ottimo concert movie che offre i migliori momenti del tour del 1987. La canzone, una vera e propria dichiarazione d’amore, è strutturata su una ripetitiva ed elementare base creata con una drum machine. Solo sul finale si affaccia una timida chitarra acustica. La versione presente nel film ripropone lo stesso beat, questa volta però accompagnato dalla chitarra acustica, suonata da Prince, per tutti gli undici minuti della sua durata. L’interpretazione, che ricorda quella di un gospel, è arricchita dagli assoli vocali della bravissima Bonnie Boyer e dello stesso Prince capaci di catturare, rilasciare e poi riprendere l’attenzione dell’ascoltatore con un’interpretazione commovente e superlativa.
Sign ‘O’ The Times si rileva un album ricco di entusiasmo, armonia, romanticismo e depressione allo stesso tempo, e consacra definitivamente Prince come un innovatore, uno dei più grandi interpreti della musica black e pop. Il disco non raggiungerà mai le vendite di Purple Rain, ma si meriterà critiche e recensioni lusinghiere, diventando uno dei migliori dischi di quell’anno, e non solo.
Raccontare l’ambizione di Prince nel voler realizzare il suo progetto, dovrebbe permetterci di apprezzare al meglio la concretezza di questo box e di capire il perché della volontà di farlo stampando ben tredici vinili. Ventisette facciate che raccolgono inediti, singoli, remix e versioni particolari di quelle che sono state le idee e le ispirazioni musicali di quel periodo. Ad arricchire il tutto anche due registrazione live: quella dell’esibizione di Utrecht a testimoniare lo storico tour promozionale e la seconda lo show di capodanno del 1987, organizzato a Paisley Park con la partecipazione di Miles Davis.
Pensate ancora che tredici dischi siano troppi per un box celebrativo? Assolutamente no! È semplicemente il segno di Prince.
Remastered Album (LP 1)
Remastered Album (LP 2)
Single Mixes & Edits (LP 3 & LP 4)
Vault, Part 1 (LP 5 & LP 6)
Vault, Part 2 (LP 7 & LP 8)
Vault, Part 3 (LP 9 & LP 10)
Live In Utrecht (LP 11, LP 12 & LP 13)
Live At Paisley Park – December 31, 1987 (DVD)
Badge And Talkalot è un progetto che inizia in una forma più allargata e multimediale e nel corso del tempo si è sublimata nella mia persona.
Doveva essere un collettivo che comprendeva la sezione audio e la sezione video (appunto “chiacchiere e distintivo”) e alla fine invece ho voluto continuare con un progetto sperimentale che aveva l’obiettivo di costruire canzoni nuove utilizzando solo campioni esistenti (che poi è il metodo di lavoro che usava Dj Shadow che è stato il mio primo punto di riferimento).
Gli sviluppi successivi hanno poi determinato la strada di Badge And Talkalot per come è oggi, anche se rimane sempre, ormai per sua natura, un progetto in continua evoluzione e trasformazione.
Non è un progetto che parte dalla black music ma arriva alla black music partendo dall’elettronica. I due lavori successivi che sono ‘Spaghetti Blaster’ e ‘Fragments Of The Soul’ rappresentano anche la mia personale evoluzione sonora. A partire da elettronica e jazz sono entrati nei miei ascolti i suoni della black music. Nel primo album (Greatest Hints del 2009) c’era un po’ di tutti questi suoni, poi a partire dagli spunti funk che hanno caratterizzato ‘Spaghetti Blaster’.
In particolare questo è un capitolo che è stato realizzato partendo da demo con campioni funk, ma poi suonato con strumenti vintage e in uno studio analogico per potermi permettere di ricostruire, attraverso la prospettiva di Badge And Talkalot, un disco che per me ha punti di contatto molto profondi.
Si arriva quindi al terzo album ‘Fragments Of The Soul’ che senza dubbio porta in luce la parte più black del progetto, almeno fino ad oggi. Senza dubbio tra i due dischi c’è uno scostamento anche di orizzonte temporale e credo sia perché nei quattro anni di distanza fra le due uscite ho potuto assimilare altri suoni, altri campioni e altre sfumature musicali che inevitabilmente poi vengono a galla.
Il fatto di inserire artisti appartenenti alla cultura black e a temi che sono propri della cultura black è stato alla fine naturale. Nel senso che io dalla black ci sono entrato, fin da ragazzo, quando ascoltavo continuamente dischi blues. Da parte mia sono molto curioso: quindi da uno spunto, vado a cercare alle origini di quel determinato suono. E questo percorso inverso mi dà l’opportunità di scoprire e di entrare in contatto con parti di un mondo sterminato. E di assorbire parte di questo mondo per poterlo vedere poi dalla mia finestra.
Forse può sembrare curioso, ma è successo spesso che le scoperte che ho fatto sono partite dagli ascolti di coloro che hanno manipolato quella parte artistica. Sono arrivato a certi suoni che appartengono alla musica black partendo da Beastie Boys, Dj Shadow, Daft Punk, Fatboy Slim, da tanti esponenti che apparentemente non hanno nulla a che fare con “la black” in senso stretto ma che sono legati indissolubilmente al mondo della musica black, se li ascolti e fai attenzione a quel che propongono e ti prendi la briga di cercare tra le righe di quello che fanno.
Poi c’è un altro approccio, che è quello che mi porta ad avere un amore particolare per la musica black di Ben Harper. Tutto è iniziato con un amico, alla vecchia maniera, che mi ha fatto ascoltare il suo primo album. Da allora l’ho sempre seguito con attenzione e stima anche perché lui fonde blues, reggae, gospel, soul ha uno stile con molte sfaccettature e sfumature. E proprio seguendolo mi sono imbattuto nel suo sito e in particolare in una sezione dove lui pubblica tutte le canzoni che suona solo dal vivo, quelle che scarta, le cover e le collaborazioni.
L’incontro con Betty Davis invece è stato ancora diverso, ancora da una prospettiva diversa. Ho conosciuto la sua musica in maniera approfondita attraverso un documentario e attraverso articoli che parlavano di Miles Davis (che a lei deve la svolta funk di Bitches Brew). Da lì ho ascoltato tutto quello che ha fatto, ho cercato di entrare nella sua storia che è pazzesca, di rendermi conto di che persona fosse Betty Davis e inevitabilmente è entrata di diritto nella prospettiva di Badge And Talkalot.
Ho infatti realizzato la cover di un suo pezzo, che per ora non è ancora uscita, in collaborazione di Lisa Kekaula. Uscirà entro la prossima primavera, rappresenterà un altro tassello dell’evoluzione del progetto Badge And Talkalot.
Georgia Anne Muldrow è stata definita uno degli artisti più audaci e importanti, anche se sottovalutata, del nostro tempo ed è stato un onore aver avuto l’opportunità di collaborare con lei e poter far sposare il suo universo con il mio. In realtà prima delle due tracce presenti in ‘Fragments Of The Soul’ l’avevo contattata per altro materiale, ma lei non lo sentì nelle sue corde e declinò l’invito.
In seguito decisi di inviarle due nuove tracce strumentali, nessun altro aiuto, con un titolo provvisorio. Questa volta se li è sentiti addosso ed è stata la prima artista con cui ho collaborato per ‘Fragments Of The Soul’. “Showdown” è il primo pezzo che ho composto come demo per il disco ed è il primo che lei ha interpretato. Fra le altre cose, quando le inviai gli strumentali avevano un titolo che lei ha mantenuto, usando solo quello spunto per creare i testi e le linee vocali. Insomma, essere stato testimone del processo creativo di Georgia Anne Muldrow credo possa essere definita a tutti i livelli un’esperienza indimenticabile. Oltre ovviamente all’onore di averla come ospite in un mio progetto.
Unire i puntini di Badge And Talkalot a partire da ‘The Fixer’ e arrivando a ‘Giving Up Your Ghost’ che ad oggi sono l’Alfa e l’Omega del progetto non è semplice, o, meglio, apparentemente sembrano due mondi opposti e quindi apparentemente il progetto è partito da un’asserzione per negarla.
In effetti non è proprio così, per niente, perché in mezzo c’è tanto tempo, ci sono stati milioni di canzoni ascoltate, suoni incorporati. The Fixer rappresenta la genesi, il big bang di Badge And Talkalot. Con le sue sei batterie scomposte che ne formano una sola, tre linee di basso, una buona quantità di filtri e la co produzione di Eraldo Bernocchi che mi diede una grossa mano con la chitarra. Questo è uno dei pezzi che è diventato grande, nel senso che lo ascolto ancora con piacere, a differenza di altri che dal primo disco credo risentano del tempo in cui sono stati creati. Da lì è stato sviluppato tutto il resto, fino a Giving Up Your Ghost che è stata inserita nel disco in extremis. Non ci doveva essere, il disco doveva essere di nove tracce ma poi è arrivata questa. Una canzone di Ben Harper che ha suonato solo due volte dal vivo, non l’ha mai registrata, ed è una canzone che esula dal normale percorso di Badge And Talkalot perché per ‘Giving Up Your Ghost’ io mi sono messo da parte, ho voluto cambiare tono, lì in fondo al disco, alla fine del tempo passato insieme. Ho avuto l’esigenza di registrarla e condividerla perché sarebbe stato un peccato lasciarla lì dove nessuno, forse, l’avrebbe apprezzata. E’ un pezzo con la voce di Kevin Mark Trail, sostenuta solo dalle tastiere di Geoff Woolley, ha un’atmosfera magica e sospesa, perfetta per chiudere questo capitolo.
Tra questo Alfa e Omega c’è Badge And Talkalot, quanto meno quello che rappresenta fino ad oggi. Con tutti i puntini che ha unito fino a qui e ora – come sempre – alla ricerca del prossimo puntino da unire.
Che potrebbe essere il puntino della manipolazione perché alcuni produttori hanno sottoposto le loro versioni di pezzi presi da ‘Fragments Of The Soul’, in un remix ep che uscirà il prossimo 21 settembre.. Il fatto che ci sia stato interesse esterno per questo tipo di iniziativa mi ha stupito: non era mai successo prima, quindi mi sono fatto da parte e ho lasciato che il piano fosse ribaltato. Non sono io a manipolare suoni, ma altri che manipolano i miei.
In particolare esiste il trattamento da parte di Kaidi Tatham per ‘The Situation’, con Georgia Anne Muldrow alla voce, che è stato il più aggressivo. Ha praticamente ricostruito il pezzo prima destrutturando e poi raccontandolo col suo stile usando anche un ritmo più veloce rispetto al pezzo originale che a dire il vero inizialmente mi ha spiazzato. Il suo sguardo da autore, arrangiatore e produttore, multi strumentista, completamente rapito dal nu jazz e dal breakbeat (e già al lavoro con Amp Fiddler, Amy Winehouse, Macy Gray, Slum Village e Soul II Soul) ha portato una prospettiva nuova ed elettrizzante.
Sto già lavorando a nuovi demo con nuovi campioni che verranno alla luce presto. Ho iniziato a disporre i tasselli, pensando al modo migliore per farli combaciare. Non credo ci sarà da aspettare tanto tempo quanto quello passato tra ‘Spaghetti Blaster’ e ‘Fragments Of The Soul’, forse adesso ho un’urgenza diversa e quindi il prossimo puntino credo proprio di unirlo molto presto.
Whitney Houston è stata una grandissima artista.
Per lo meno per come ce l’hanno fatta conoscere. Un ritratto, quello costruito negli anni, che ha lasciato diversi puntini. Spesso di sospensione.
Alcuni di questi puntini, quelli della trama dietro le luci, dietro i premi, dietro quello che ci è stato “venduto” di Whitney Houston li ha uniti un documentario di Nick Broomfield e Rudi Dolezal “Whitney: Can I Be Me?”
La pellicola racconta, usando alcune performance strepitose di Whitney Houston, una doppia storia. Perché c’è anche quella della cultura americana, della celebrità, delle questioni razziali e dell’autodistruzione. Passate attraverso il prisma di una persona famosa.
Nel documentario è Kenneth Reynolds, direttore marketing della Arista (l’etichetta che ha lanciato e capitalizzato Whitney Houston) ad affermare che per come veniva gestito il repertorio tutte le canzoni che erano “troppo black”, tutti gli atteggiamenti che non erano “standard per gli stereotipi americani trasversali”, suoni che appartenevano in modo deciso alla cultura black, venissero scartati. In favore di tutti quelli che corrispondevano al canone della “Principessa Whitney”.
Il “prodotto” Whitney Houston doveva essere sempre ben compreso nei canoni della ragazzina innocente, non troppo bianca e non troppo nera, che lavorando sodo aveva usato perfettamente talento e disciplina per diventare una splendida regina della musica pop.
A prescindere da tutto il resto e – a quanto pare – a qualsiasi costo.
Una gestione che a conti fatti aprirà la strada ad altre artiste (e mi vengono in mente Mary J. Blige e Beyoncé), ma che pagherà un prezzo altissimo. E lo pagherà Whitney.
Si dice, intanto, che la firma con Arista sia datata 1983 ma il debutto arriverà solo nel 1985.
Due anni di lavoro di “costruzione” non tanto sul talento che è – indubbiamente – cristallino, ma sull’immagine, sull’universo che deve comunicare, sulla “persona” intesa quasi come un alter ego. E durante i quali spuntano le prime crepe in un implacabile confronto fra l'”essere” e l’ “apparire”.
A discapito di introduzioni in cui Whitney è una persona estremamente sofisticata lei si presenta sulle copertine in jeans e t shirt, è a modo nelle interviste, naturale, così come lo è qualsiasi ragazza e non la principessa che veniva loro presentata. Questa era la crepa più evidente, quella che usciva anche in pubblico.
C’è una parte, nel documentario, in cui viene chiaramente portato alla luce il meccanismo inceppato, quel punto in cui Whitney non poteva più nascondere di essere spezzata, dentro, inesorabilmente.
È la lettera di David Roberts, nel 1995, scritta al management nella quale è espressa chiaramente la preoccupazione nei confronti dell’abuso di droghe e dell’influenza malata delle persone che la circondavano. Le cose si mettevano davvero male, bisognava intervenire, era l’unica cosa giusta da fare.
Ma a quel punto per l’entourage sarebbe stato troppo costoso fermare tutto. Fermare i concerti, annullare i tour, recuperare l’essere umano Whitney Houston. Queste persone non se ne curarono e continuarono ad approvvigionarle la droga, fino alla fine, perché era importante staccare i biglietti, vendere i dischi, fare soldi (sì l’hai già sentita anche già avanti questa storia ma non parliamo di Amy, adesso).
David Roberts venne licenziato. Whitney Houston doveva continuare lo show.
Ma qui siamo già praticamente alla fine perché ci sono altri momenti di rottura, gravi, nella vita di Whitney.
Intanto il fatto che per i primi due dischi la comunità nera la rifiutò. Era troppo bianca, era troppo pop, non apparteneva alla loro cultura, su disco le veniva asciugato tutto il soul che lei aveva sul palco, l’immagine era quella di “un prodotto” appunto e non era percepita come vera, reale. Ecco il primo cambio di prospettiva: quello che separa il secondo dal terzo disco. Fuori le cose più pop e dentro Babyface, Luther Vandross e Stevie Wonder. Clive Davis, a capo dell’etichetta discografica, la aiutò in questo senso non ostacolandola, cercando di trovare una mediazione. Funzionò, in parte.
Del resto, lei poteva permettersi di dettare le regole e di dire alcuni “no”, era una macchina da soldi.
E poi c’era ancora al suo fianco Robyn Crawford, la sua assistente e da sempre la sua migliore amica. Una forza positiva che tentava, spesso senza riuscirci, di riportare Whitney a casa.
Come quella volta, nell’edizione del 1989 di Soul Train Music Awards quando si accese il rapporto tra Whitney e Bobby Brown. Quando il pubblico accolse malissimo Whitney, alimentò ulteriormente la ricerca di componenti scabrose nella sua vita privata “perché, del resto, lei è fake e noi vogliamo la verità” (bisognerebbe imparare a lasciarle stare, le persone).
Ma quella sera, quella scintilla, generò una narrazione che metteva tutto a posto: Whitney sposa Bobby Brown – icona del maschio nero che ce l’ha fatta – e quindi la principessa trova il suo principe azzurro. Ma le cose non restano così a lungo quando si spengono i riflettori.
In un colpo solo si cancellano le polemiche sulla blackness, sull’orientamento sessuale, sul rifiuto a cui è stata sottoposta dalla comunità nera. Ma si accendono le luci su un rapporto che nasce da circostanze difficili e non è sano sin dall’inizio all’interno e all’esterno.
La prurigine dei media che li assedia costantemente per alimentare gossip e polemiche, il fuoco incrociato di calunnie, di opinioni non richieste amplificate in tv e sui giornali, le continue accuse rivolte a Whitney in merito al suo rapporto con Robyn, il fatto di diventare Whitney e Bobby genitori anche per spegnere le polemiche e le diffamazioni, le scuse – puerili, sciocche, assurde – relative ai ripetuti adulteri di Bobby Brown, la spirale discendente in cui si pone Whitney Houston per scappare dai propri demoni e arrivando a cancellare spettacoli, rendersi spesso impresentabile, essere arrestata due volte durante il periodo del matrimonio per droga e alcol (lo dirà, Whitney, nell’intervista a cuore aperto con Oprah Winfrey chiarendo anche il fatto che Bobby Brown non usò sistematicamente violenza fisica su di lei ma affermando che la violenza psicologica era invece presente).
E poi c’è stato quell’errore, quel passo falso, quella serie tv, ‘Being Bobby Brown’ dove il boomerang ha fatto ritorno da una parte cancellando quell’immagine di principessa di Whitney Houston destabilizzata anche dall’allontanamento del suo mentore Clive Davis dalla sua etichetta discografica e dall’assenza da ormai cinque anni della spalla amica di Robyn Crawford che se ne andò dal management dopo che Whitney rifiutò di farsi aiutare per uscire dalla tossicodipendenza.
Poi il divorzio da Bobby Brown, la difficilissima ripresa per tornare ad agguantare quel posto che le spettava, la voglia di riscatto e la sua dignità splendida raffigurata dalla performance di ‘I Didn’t Know My Own Strenght’, un capolavoro tardivo ma dal significato assoluto.
La fragilità, il non essere riuscita a farcela, il fato, una serie complicata di cause ed elementi. Quella vasca da bagno, quella sera dell’11 Febbraio 2012, dopo un tour disastroso nel 2009 durante il quale il pubblico contestava apertamente la performance non all’altezza e spesso abbandonava la sala prima del termine dello spettacolo, dopo un’altra dose fatale di solitudine, di attitudine volta all’auto distruzione, di una foto (comprata per 85.000 dollari, scelta male, usata peggio, evitabile) che è diventata una copertina di brutto gusto per un disco che brutto non è.
E di quel tour con l’ologramma, di gusto ancora peggiore della copertina.
Di fatto, quando dietro accadeva tutto questo noi eravamo seduti comodi, in platea, aspettando quell’acuto, quella nota e così distratti e accecati dalla bellezza forse abbiamo perso tutto il “blues” che si consumava dietro.
Forse anche noi non avremmo potuto fare nulla.