Funk: un genere musicale.
Funk: il figlio strano di soul, jazz e rhythm and blues.
Funk: un termine che nasce nel jazz e che ha una storia che parte da più lontano.
Cioè, qui la cosa è abbastanza complessa perché il funk nasce come da manuale nel 1965 con ‘Papa’s Got A Brand New Bag’ di James Brown, ma in questa storia il funk nasce nel 1967.
O, meglio, qui è dove si racconta di come l’hard bop ha incontrato il soul e attraverso la lente del jazz diventa anche funk.
Solo che per riuscire a unire i puntini di questa storia dobbiamo andare indietro, molto più indietro.
Il salto nel tempo è necessario, questa volta. E andare indietro fino agli anni ’40, quelli post seconda Guerra Mondiale, che è davvero un sacco di tempo fa.
In pratica al tempo in cui venne reso disponibile un piccolo apparecchio che abbiamo chiamato tutti radio a transistor e che ha potuto fare in modo che alcune apparecchiature prima ingombranti potessero diventare pratiche e allo stesso tempo aver sdoganato come commodity anche il rhythm and blues, fra le altre tante cose.
Già, perché il rhythm and blues è diventato la prima forma di musica popolare nera ad essere esposta al consumo di massa passando da espressione della cultura nera, selvaggia se possiamo dire, a commodity.
Doveva essere resa più fruibile, così come fu per il jazz che stanco dell’attenzione del grande pubblico – in gran parte bianco – si defilò e si trasformò in bebop.
Si presentava quindi un problema, serio. Bisogna prendere il rhythm and blues e togliergli gli spigoli, fare in modo che possa piacere a tante persone, farlo diventare qualcosa di classificabile, di digeribile, di acquistabile dai bianchi (e in questo la Motown fu maestra).
Poi non è mica tutto qui. Siamo nel periodo del dopo guerra: i locali non avevano proprio modo di ospitare ancora le big band, dovevano puntare su gruppi con meno persone, non è che girassero tanti soldi per gli ingaggi. E allo stesso tempo era arrivata la radio e la radio suonava i dischi quindi quel tipo di musica lo ascoltava anche Benjamin mentre andava a spasso per Memphis senza bisogno di andare al Savoy la sera.
Tutto questo lo aveva capito benissimo Louis Jordan (e anche i tipi della Decca che lo fecero incidere per la neonata Seppia, nome emblematico per identificare dischi che potevano piacere sia al pubblico bianco che a quello nero).
E Louis Jordan, che aveva capito che la cosa più importante in quei giorni era riuscire a fare musica che facesse ballare, diventando così il primo artista “crossover” e finire anche all’interno di un episodio di Tom & Jerry:
E anche ad avere un suo pezzo preso da James Brown e inserito nel repertorio del futuro King Of Tutto Quello Che E’ La Musica Black:
Unendo un puntino che è a quasi dieci anni di distanza da qui andiamo agli anni ’50 quando il jazz moderno era ormai stato trasformato da musica da ballo urbana e rappresentazione di una classe sociale prossima allo schiavismo a musica da concerto di cui si è appropriato il mainstream statunitense – soprattutto nella sua appartenenza più elitaria – staccandolo dal suo habitat che era quello genuino della vicinanza ai problemi più sentiti della comunità nera.
Mentre era in atto questa trasformazione, la musica black si sposta. Di nuovo. Perché la musica black risponde immediatamente alle emergenze della sua comunità, alle emergenze degli afro americani, lo ha sempre fatto fin dai campi di cotone.
Si sposta, quindi, e diventa hard-bop per il jazz e poi diventerà anche musica soul in modo da rappresentare la diaspora dei neri (ricordi che c’era in ballo tutta quella cosa della migrazione dal Sud al Nord degli Stati Uniti?)
E l’hard-bop è nato resistente, impermeabile o quasi alla storia si adatta e contamina per rimanere a stretto contatto con la gente nera che era segregata, condividendone lo spirito, le angosce e le speranze. Si stratifica, come quelle comunità, le permea e ne diventa rappresentanza così come farà dopo alcuni anni il soul anche se con una grammatica diversa.
La segregazione, fra l’altro, ha dato il via alla creazione del Chitlin’ Circuit che è l’insieme di locali sparsi negli Stati Uniti dove gli artisti e gli intellettuali afro americani erano liberi di esprimersi e dove non entravano le regole della censura della segregazione razziale.
Sono i posti dove si raccoglie la comunità, la stessa che si raccoglie(va?) nelle chiese la domenica, per stare insieme, per respirare la stessa aria e la stessa cultura, le stesse origini.
Avanti veloce, al 1967, quattro anni dopo l’approvazione del Civil Rights Act e tredici anni dopo l’adozione della sentenza Brown vs Board Of Education che dava inizio allo smantellamento del sistema di segregazione e discriminazione razziale (che, per quanto, è ancora lontano dall’essere adottato dalle persone). Quando proprio da questo ormai consolidato circuito di artisti viene stampato ‘Alligator Bogaloo’, un disco di Lou Donaldson.
Un disco importante, importantissimo, che rappresenta senza mezzi termini il legame tra la musica, il musicista e la propria gente, la propria cultura. Qui suona anche un giovanissimo George Benson e quel percussionista che porta tutta New Orleans con sé al servizio del disco e che si chiama Idris Muhammad.
Rickey Vincent che ha scritto un manuale fondamentale per approfondire la musica black e che ha intitolato ‘Funk: The Music, The People, and The Rhythm Of The One’ scrive che l’enfasi poliritmica della batteria presa da New Orleans era una specialità di quel posto, l’unico posto negli Stati Uniti dove gli schiavi neri avevano il permesso di suonare la batteria. Era lo spirito di Congo Square, quello della “seconda linea” (che oggi viene ripreso da Dawn Richard nel suo disco nuovo o da Jon Batiste, insomma siamo nel 2021 ma New Orleans è sempre e comunque tra di noi e parte da lontanissimo) ed era il seme del Funk.
Studi della Blue Note, Englewood Cliffs, N.J., 1967
Lou Donaldson: “Ok Rudy, qui abbiamo finito.”
Rudy Van Gelder: “Lou mi spiace ma qui dice che il disco deve essere di 30 minuti e ne avete registrati solo 27 quindi per contratto mi serve un’altra canzone.”
Lou Donaldson: “Rudy noi non abbiamo altro, quello che era pronto lo abbiamo suonato tutto, siamo in cinque e questo è quanto abbiamo da dare.”
Rudy Van Gelder: “E va bene però a questo punto improvvisatemi qualcosa per almeno tre minuti, io li metto alla fine, tanto alla Blue Note andrà bene lo stesso.”
Lou Donaldson guarda gli altri poi parte con un riff. Lo seguono. Vanno avanti per sette minuti e quella registrazione diventa il pezzo di apertura del disco, il disco che fa di Donaldson un grande del jazz, il disco che diventa una delle connessioni più forti fra la comunità afro americana e la musica, fuori dalla portata – almeno allora – del pubblico bianco.
Wil Key ha attraversato quindici Paesi per portare a compimento il progetto Globetrotter.
Per tantissimi versi un atto d’amore, una raccolta di volti, voci, sentimenti, persone, colori e culture che vengono raccontate attraverso le costruzioni dell’RnB e rappresentano l’essenza di un concetto che spesso uso per definire l’amore per la musica: la condivisione.
In questa ‘Side B’, Wil Key ha radunato più di 40 artisti completando il capitolo Globetrotter iniziato nel 2019. Ed è stato proprio in quella occasione che ho avuto il primo incontro con lui e che ti ripropongo in una versione accorciata in fondo a tutto il resto.
Questa volta, quando abbiamo incrociato le agende, il disco non era ancora uscito (è fuori oggi e lo trovi sul suo Bancamp) quindi ho preferito allargare la visuale sugli aspetti “attorno” al disco piuttosto che a quelli “dentro” Globetrotter Side B che intanto però puoi ascoltare anche qui:
Wil Key ha iniziato ad affacciarsi al mondo della musica registrata nel 2001 con ‘Gipsy’, disco realizzato in solitaria dove ha suonato scritto e prodotto tutto. Da lì i primi passi e la necessità di inserire una band, di iniziare un percorso di condivisione che oggi lo ha portato lontanissimo.
Con un passaggio: quello di ‘But A Woman’ che è un viaggio nell’universo femminile dove c’è ‘Butterfly’ dedicata alla donna che ancora non c’è nella sua vita, la figlia.
E poi arriviamo a Globetrotter.
Un lavoro che mi sta impegnando ormai da una decina di anni. All’inizio l’idea maturò nel 2010 mentre ero in tour in Europa e suonando ogni sera per la prima volta in Europa ho raccolto un’enormità di stimoli e di arte che arrivava da un mondo apparentemente distante e diverso da quello a cui ero abituato, una cultura che andava a complementare quella da cui arrivavo io.
La differenza con l’America è che in Europa ti sposti e incontri un altro mondo, un’altra lingua, un altro modo di vivere e intendere le cose. E’ un posto estremamente ricco da questo punto di vista e quando sei lì dentro non riesci a non assorbire qualcosa da chiunque, è impossibile.
Per me questo processo è importantissimo, ogni volta mi veniva un’idea che era associata al luogo in cui avevo suonato la sera prima e l’urgenza era quella di fissarla, di catturarla e portarla con me. Non volevo perdere quella magia, avevo solo voglia di portarla con me per poterla condividere. Così ho iniziato a registrare ovunque: negli studi di amici, in posti improvvisati, ovunque potessi fissare in qualche modo quelle sensazioni, quei colori.
Man mano che raccoglievo queste idee mi rendevo conto che avrei voluto svilupparle, avrei voluto dare a ciascuno di questi momenti un posto dove rimanere per sempre per essere vissuti da tutti. E così è nata l’esigenza di farne un album.
Wil Key insegna, a Los Angeles, in un college ad indirizzo artistico ed è a questo proposito che il discorso sposta lo sguardo sulle nuove generazioni di musicisti:
Ogni generazione ha un linguaggio proprio, i propri modi di dire e i propri meccanismi di pensiero. Quello che io imparo da loro è come si relazionano alla musica, qual è il loro approccio, quali sono le dinamiche che li portano a diventare intimi con la musica. E queste cose sono diverse ogni volta, per ogni generazione. E non è solo per via della tecnologia che diventa sempre più presente, ma è proprio il loro approccio che cambia. Ad esempio noi siamo abituati a un percorso che parte dalla scrittura della canzone, dopodiché scegli gli strumenti, poi vai in studio e lì inizi la produzione. Le nuove generazioni invece hanno un approccio che pone la scrittura e la produzione in contemporanea. Questa cosa mi dà la possibilità di restare connesso a loro, di scoprire quali sono i modi nuovi che hanno per creare una canzone.
E visto che per Wil Key la comfort zone è quella che si chiama “RnB” entriamo in un terreno battuto poco volentieri da coloro che si dichiarano estimatori di questa parte della musica black. Di fatto, all’R&B oggi non vengono più concessi i favori dei riflettori (secondo me i fasti degli anni 90 e 00 te li ricordi bene), eppure il genere gode di ottima salute. Significa che c’è qualcosa che non funziona adeguatamente, quindi.
R&B è la mia home base, di sicuro. Vedi, oggi come dici tu il genere è ancora in ottima salute ma non c’è un riflettore puntato sull’R&B. Penso che la cosa che manchi di più oggi nell’R&B sia la mancanza di coraggio nel prendersi dei rischi. Spesso mi sembra che l’R&B sia più una posa, un cliché piuttosto che qualcosa di vivo e che voglia entrare in connessione con chi lo ascolta. Sempre più spesso è un voler assomigliare a uno stereotipo o a una star piuttosto che avere il coraggio di esporre sé stessi. E in tutto questo la cosa che viene a mancare è il cuore. Il fatto di voler apparire “cool” al posto dell’avere bisogno di esprimere un sentimento è quello che ha spento quel riflettore. Le emozioni vere, il rischio vero, queste cose stanno mancando molto spesso oggi nell’R&B. Direi che manca un po’ di anima, che poi è quella cosa che fa in modo che le persone connettano a un livello davvero profondo con la musica. Fortunatamente non è così per tutti gli artisti, ce ne sono alcuni che stanno facendo un bellissimo lavoro, ma nella maggior parte dei casi a me manca il cuore, l’intensità, la necessità di comunicare qualcosa che hai dentro e che riesci a portare fuori soltanto con la musica, manca quello spirito tradotto in forma musicale.
Globetrotter mi ha insegnato ad essere molto rispettoso come musicista e come artista.
Vedi, avendo avuto l’opportunità e il privilegio di entrare in contatto con altre culture e con altri tipi di musica io non ho mai voluto appropriarmi di nulla e non ho voluto imitare nulla che arrivasse da altre culture. Ho ritenuto invece importante che quelle culture, che quei suoni, che quegli artisti raccontassero in prima persona sé stessi. Mi è sembrato una semplice questione di rispetto e di essere onesti nei confronti di quello che stavamo creando. Ho voluto solo che emergesse quello che io sentivo provenire da loro quando ero lì e stavo suonando con loro e non avrei potuto di certo ricrearlo per conto mio tornando alla comodità della mia vita e del mio studio. Ho voluto lavorare con loro, lasciando loro lo spazio per esprimere quelle cose che stavano conquistando me, lì, come se avessi voluto catturare un attimo per poi fare in modo che fossero loro stessi a raccontarlo.
Recentemente Wil Key ha pubblicato sui social media l’esistenza di una collaborazione appena realizzata con Jill Jones che prosegue l’espressione della sua ammirazione per Prince (mai nascosta, anzi, sempre presente anche in ‘Globetrotter Side A’):
E per concludere la nostra chiacchierata era doveroso un accenno a Black Lives Matter.
Wil Key è stato molto attivo durante il periodo delle proteste riportando l’attenzione su una traccia che fa parte di Globetrotter Side A, ‘Got So Far To Go’ e che in tempi non sospetti aveva messo a fuoco il problema delle disuguaglianze e del razzismo sistemico americano. Un problema sul quale è ancora tantissimo il lavoro da fare, non solo in America.
A che punto siamo, adesso, in America, un anno dopo l’assassinio di George Floyd?
Siccome ogni promessa è un debito, ecco qui di seguito la chiacchierata a proposito di ‘Globetrotter Side A’ che ho ripreso in “versione breve” dal sito di una mia vecchia trasmissione radiofonica che si intitolava ‘The Soul Haven’.
Django Concerti l’ho sempre identificato nella persona di Carmine (anche se così, precisamente, non è).
Non abbiamo mai avuto l’opportunità di prenderci una birra insieme, di persona, così lo abbiamo fatto a distanza dato anche il periodo.
Ci siamo messi a chiacchierare, a ruota libera, su questioni che sono partite da come oggi venga vissuta la cultura in Italia e quali sono le difficoltà oggettive di chi opera in un settore come quello musicale dove apparentemente la cultura è un ostacolo (lo so, è un paradosso, ma è più tangibile di quanto non possa sembrare).
Carmine fa parte di Django Concerti che è un’agenzia che si occupa di distribuzione di spettacoli sia di artisti italiani che internazionali.
Tra quelli che fanno parte del roster ci sono tra gli altri Davide Shorty, Claver Gold, Murubutu, Inoki Ness, Godblescomputers, Johnny Marsiglia e a livello internazionale fra gli altri Seun Kuti, Nicko Demus, Chico Trjuillo. Collaborano anche con Mos Def, Talib Kweli, Alpha Blondy, Lee Scratch Perry… insomma, una bella compagnia.
Django Concerti si occupa della musica compresa tra world music e Hip-hop con il tocco magico di essere caratterizzati dall’attitudine di sottolineare il progetto culturale degli artisti dietro al progetto discografico. Se parliamo della nuova onda musicale, Django Concerti è più vicino all’Afro Beat che alla trap.
A proposito di cultura, siamo in un periodo storico molto delicato. Da una parte la pandemia che ha evidenziato le inadeguatezze da chi da una parte dovrebbe tutelare la cultura e dall’altra le abitudini del pubblico che apparentemente si è abituato alle brutte abitudini. Senza però dire sempre che l’inferno sono gli altri, quali possono essere i segnali positivi?
Credo che al giorno d’oggi ci voglia davvero tanta determinazione per portare avanti un progetto musicale e culturalmente elevato, soprattutto in una nazione piccola come l’Italia dove il mercato musicale nazionale è ristretto, con la predominanza delle canzoni imposte delle major e di quelle che arrivano dall’estero oltre confine. Mai come in questo momento credo che la musica sia un prodotto usa e getta.
Si sfornano singoli ogni 28 giorni per tenere vivo l’algoritmo di Spotify. Oramai si fa musica per gli algoritmi di queste app: ma cosa sarebbero queste app senza la musica? Voglio dire: gli artisti pensano di aver bisogno di Spotify ma è Spotify ad aver bisogno degli artisti. Prendere coscienza di questo già potrebbe aiutarci a immaginare quanto ogni artista sia fondamentale perché dalle loro idee, dalla loro genialità, da un guizzo, vengono generate delle emozioni in grado di colpire più persone. Invito i musicisti a pensarlo con consapevolezza ma senza presunzione.
Purtroppo però viviamo una nuova era dei juke box: oggi sostituiti, appunto, da Spotify e simili. La gente preferisce ascoltare singoli, piuttosto che dischi e quindi si è persa anche l’abitudine di lavorare ad un album, a meno che tu non abbia una fan base solida pronta ad accoglierlo. Per cui ne son rimasti pochi di artisti che fanno musica per esigenza di esprimersi: si cerca, invece, di assecondare le influenze del momento, imitando le mode, a discapito dell’originalità. Molti brani sembrano di plastica e oramai lo diciamo da troppo tempo: la plastica inquina. Ma non vorrei che passasse il messaggio che scrivere una canzone pop sia da tutti. Anche per quello ci vuole talento e anche tanto.
E il problema sta proprio in questo: molti giovani artisti credono che per raggiungere il successo sia sufficiente iscriversi a un talent, cercare di avere visibilità e farsi illudere dallo stato mentale in cui oramai tutti viviamo, quello del “tutto e subito”.
Per cui, se devo pensare a dei segnali positivi, li vedo in gente come i Calibro 35 che dopo anni e anni, in giro per l’Italia a conquistarsi il pubblico attraverso dei concerti di altissimo livello, finalmente sono riconosciuti come una tra le migliori band della nostra nazione (e non solo). Credo che, come in tutti i lavori, bisogna avere tanta determinazione, costanza e talento. E sono certo che la gavetta sia fondamentale. Ma sai, è anche tutta una questione sociologica.
Martin Luther King parlava dell’istinto del tamburo maggiore, quello che va davanti: una posizione in cui tutti, o meglio in molti, vorremmo essere.
Immagina quindi se ti prospettassero questo ruolo, saltando la fila, senza attendere, per ottenere successo. Unica possibilità per farlo: devi rinnegare quello che hai espresso culturalmente e musicalmente fino a quel momento; prendere o lasciare. Tu che faresti?
Oramai non è più una colpa: viviamo in una società senza ideali dove non ci scandalizziamo più se un politico passa da un partito all’altro, per cui, ci mancherebbe se devo crearmi problemi se ieri facevo rap e oggi il mercato vuole che io sia rock.
Rispetto allo stato generale di un comparto “industria musicale” credi sia solo una questione di compromesso quindi? Cioè sdoganare la marchetta della tv per l’arte che si esprime attraverso la musica è come dare per normale un paradosso secondo me. Ed è un concetto che per me è irricevibile.
Intendo esattamente questo. Paradossale, certo, ma oggettivo.
Il brano che ha più successo in Italia, in questo momento, è una marchetta ben costruita da chi fino a qualche tempo fa suonava altro. Spesso si lascia credere che la discografia sia diventata più democratica anche grazie all’utilizzo dei social, e che le major intercettino gli artisti in base al loro “hype” su Spotify, piuttosto che su Instagram; mentre prima erano le major che ti aiutavano a costruirtelo.
È parzialmente vero.
Lo sarebbe se le major prestassero attenzione anche a quegli artisti che fanno rap underground e hanno più ascoltatori e paganti di Anna Tatangelo (per esempio), o che vogliono sentirsi liberi di cantare in inglese o in qualsiasi altra lingua del mondo: in Italia se non canti in italiano, non vieni neanche considerato dalle major.
Allora a quel punto se fai rap underground diventi Fabri Fibra e se canti in inglese fai come Elisa.
Ma queste cose ci sono sempre state. Ad esempio, negli anni 70 c’erano le sigle delle trasmissioni tv, poi i comici, poi ancora i cartoni animati e tutta una serie di produzioni pensate per avere la strada spianata e possibilmente durare una stagione e via. Dall’altra parte è bene ricordare che però avevamo tutto un altro piano di lettura in cui si muovevano quegli artisti e quella musica che oggi viene definita “classico”. Su questo piano si muovevano anche tutti quegli attori che si dedicavano allo sviluppo degli artisti, ad avere la pazienza per farli crescere, per far loro trovare una strada propria…
Pensiamo ai talent.
Oggi molti artisti vogliono partecipare ad Amici, a X Factor. Sono dei format che, a mio parere, danno maggiore visibilità ai giudici che agli artisti, tranne in rari casi ovviamente.
Ma anche lì, c’è il totale controllo delle major che sfruttano il canale televisivo (che poi si riflette sui social e Spotify) per confezionare già un prodotto bello e pronto, prontamente avviato sul mercato. Non so se ti è mai capitato di vederlo, ma ad Amici ogni settimana stilano la classifica degli inediti dei partecipanti, con più ascolti su Spotify: e ne hanno già milioni su milioni, alcuni hanno già vinto dischi d’oro stando ancora nel programma. È un trampolino di lancio che serve anche, molto e soprattutto alle discografiche.
Io, da indipendente, con Django Concerti non ho la stessa forza, per cui se un giovane artista vuole provare ad avere successo (nel breve o lungo periodo che sia) e imporsi, io per primo potrei consigliargli di passare tramite un talent. Credo che l’immagine che meglio rappresenti questo concetto possa essere la pianta della scarpa di un gigante che prova a schiacciarti: o ci resti stecchito, o a furia di resistere ci metti così tanta forza da riuscire, non solo ad opporti, ma a venirne fuori irrobustito.
C’è molto ottimismo da parte degli addetti ai lavori. Mi vengono in mente soprattutto i vari proclami di Assomusica che sono rimasti anche nei fatti solo proclami e comunicati stampa senza alcuno sviluppo concreto.
E poi c’è una realtà come Django Concerti che si rimbocca le maniche e mette la musica nei teatri facendo in modo che le persone la possano ascoltare, che le persone possano approfondire anche in maniera “laterale” un evento come Dantedì…
Era così difficile secondo te strutturare nello stesso modo un’operazione come L’Ultimo Concerto che ha fatto giusto due ore di rumore su Twitter – in particolare da parte di chi era deluso da un annuncio che si è tramutato in una protesta che ha coinvolto più i sostenitori di quei gruppi che non le Istituzioni cui era indirizzata (almeno negli intenti, la gestione non la commento neanche)?
Poi secondo me ci sono stati artisti che si sono messi in prima linea a fare da baluardo a questa “iniziativa” e 48 ore dopo erano ad esibirsi sul palco di Sanremo come se nulla fosse successo e senza nemmeno accennare a questo grosso problema dei locali chiusi al netto di una incomprensibile spilla appuntata alla giacca. A me è sembrato vagamente ipocrita. Una brutta conclusione di una cosa iniziata male e gestita peggio.
Ci sarebbe tantissimo da dire su questo argomento.
Quando è partita la pandemia e ci siamo ritrovati tutti quanti a dover fare i conti con l’incertezza, ci si è cercato di organizzarsi facendo rete, ognuno in base al proprio campionato in cui giocava.
Perché poi, ognuno ha i propri interessi e le proprie esperienze e non tutti la viviamo nella stessa maniera questa crisi. Ci sono le multinazionali che ne approfittano per acquisire gli artisti e noi indipendenti che restiamo a guardare, afflitti nei problemi della praticità quotidiana in cui, da una parte, pensiamo se ci saranno i concerti in estate, ma ancor prima dobbiamo capire se, riusciamo ad arrivare alla fine del mese.
Però, onestamente, io credo che i Movimenti vadano costruiti nel tempo e non davanti a un’emergenza. Solo il tempo ti lascia capire quali sono i propositi, i leader, le intenzioni.
Onestamente, proprio per questa ragione, sono stato molto diffidente perché sin dal principio ho immaginato che nel momento in cui ci sarebbe stata una ripartenza, tutti sarebbero tornati a sbranarsi per le briciole.
È lavoro, c’è concorrenza. Dobbiamo essere realisti!
Però credo che in molti ci abbiano messo passione, determinazione e concretezza. Tra questi La Musica Che Gira che si è fatta promotrice de L’Ultimo Concerto.
E’ un peccato che sia stato frainteso. Il concetto che gli operatori volevano esprimere era “dispiacetevi con noi per il coito interrotto” piuttosto che “arrabbiatevi perché non vi abbiamo fatto vedere come si fa l’amore”.
Noi come Django Concerti abbiamo lanciato un’altra iniziativa, realizzata da una cooperazione con Unipol Arena, in cui ci sono 4 artisti che si esibiscono in altrettanti palazzetti italiani, tra i più noti, suonando “The Sound of Silence” senza pubblico: un’immagine struggente. Questo è un progetto a supporto di “Bauli in Piazza”, ad esempio.
Rispetto all’argomento Sanremo al di là di tutto il circo delle polemiche che ci sono state (facciamo, non facciamo, mettiamo il pubblico, lo togliamo) nel momento in cui c’è una macchina organizzativa ed economica come quella del Festival che ha a disposizione un budget davvero importante a me sembra ottimo che si proponga di fare tamponi a tutti su scala quotidiana, che ci sia attenzione rispetto alla sicurezza di artisti e pubblico (anche se poi il pubblico non c’è stato). Penso però che se Django Concerti dovesse aderire a un protocollo di quel tipo sarebbe difficile sostenerne i costi. Perché alla fine si dovrebbe far ricadere quel costo sul prezzo dei biglietti e non sarebbe fattibile. Potrebbe esserlo se lo Stato garantisse tamponi gratuiti a tutti i cittadini (come sta accadendo in UK), permettendo a chi non ha il COVID di svolgere le normali attività. Per cui si sarebbe dovuto spiegare alla gente la differenza che c’è tra un’organizzazione come quella di Sanremo e quella in cui si è costretti a lavorare altrove. Guardiamo all’esperimento che è stato fatto a Barcellona: 5mila persone che assistono a un concerto, senza distanziamento ma con mascherina, in un palazzetto con tamponi all’ingresso. Tutto bellissimo ma è un’operazione economicamente insostenibile per ogni organizzatore comune. Per cui puoi farlo se hai le economie per renderlo possibile. Sanremo le aveva.
L’artista è Davide Shorty, vincitore del Premio Sala Stampa Lucio Dalla a Sanremo, del premio Enzo Jannacci Nuovo Imaie 2021 e il premo Lunezia per Sanremo 2021 per il valore musical-letterario. Ora è sotto la “tenda” di Django Concerti pronto per i palchi (e dal vivo è una garanzia). Il 30 Aprile esce ‘fusion.’ il suo secondo disco solista e questa è la mia preferita della quale ha parlato anche Mookie (che è la mia newsletter preferita).
Beh, però lasciami sottolineare che la polemica di pubblico sì, pubblico no e di nel teatro sì e quindi apriamo anche tutti gli altri è stata lanciata proprio da… altri artisti.
Guarda, io ero coinvolto in prima persona con Django Concerti per Davide Shorty quindi l’ho vissuta in un certo modo.
Però se non avessi avuto un artista presente probabilmente l’avrei vissuta seguendo la scia della polemica. Siamo un popolo di rosiconi, mi ci metto dentro.
E spero che tutti possano avere la mia stessa onestà perché quello che ho spiegato prima (sulla possibilità di Sanremo di poter fare il festival col pubblico in sicurezza, nda) è oggettivo.
E poi, sempre rifacendomi a quelle polemiche del “pubblico a Sanremo si ma nei teatri no”, ora chiedo: “il fatto che al festival non ci sia stato pubblico, ha poi permesso di portarlo negli altri teatri?”. Io non ne vedo ancora. Torniamo sempre lì, è la percezione di chi può esserci e quella di chi invece non può esserci secondo me che fa le regole del gioco e alza o abbassa le polemiche.
Con Carmine siamo partiti da un dettaglio per poi allargare il quadro e alla fine arriva l’apertura sui massimi sistemi e la condivisione che oggi pigramente si metta tutto nel calderone R&B tanto da trovare un’enorme confusione e tanto da trovare affiancati i nomi di Jazmine Sullivan e quello di Justin Bieber. Io ne ho già scritto qui e poi anche qui e siccome ancora non ho cambiato idea non riporto le stesse considerazioni. Quelle di Carmine, invece, sì.
Siamo portati a dover etichettare tutto. Ci diventa difficile andare al di là delle differenze artistiche. Noi come esseri umani, abbiamo la possibilità di accesso a ogni tipo di informazione di approfondimento, ma ci soffermiamo a leggere i titoli piuttosto che gli articoli, e poi diamo a quel titolo un senso nostro e ne parliamo in quella chiave. Ad esempio, sarebbe bello sapere chi, ha avuto la pazienza di leggere questa intervista fino a questo punto.
All’inizio questo discorso applicato all’ R&B faceva sorridere perché è evidente che a noi quella musica arriva dopo un processo di canalizzazione culturale e musicale che giunge direttamente dagli Stati Uniti e ci arriva di prepotenza.
Quello che stava succedendo anche con l’Afro Beat, musica nigeriana, arrivata sul mercato americano e che pian piano arriverà sempre più anche da noi. E’ la stessa cosa che è accaduta col reggae: Bob Marley diventa una star negli Stati Uniti e poi arriva in Europa. Ma questo vale per tutto. Gli Stati Uniti esportano cultura più di tutti, sono una grande nazione in cui convivono tante etnie e la canalizzazione delle mode è quasi un esperimento sociale su bassa scala da riportare poi in tutto il mondo. Però nonostante l’enormità di sfumature che la musica può avere, viene tutto semplificato in qualche genere, che mi sembra più un’etichetta da affibbiargli per farlo recepire con immediatezza, che una catalogazione musicale definita. Pensiamo sempre a Spotify e al nome delle playlist. Cosa sono se non etichette, brand? In questo modo, a mio avviso, si cerca anche di avere un controllo sociologico della musica che – lo sappiamo benissimo – è in grado di influenzare la società. Se pensiamo che le major si sono appropriate di generi appartenenti alla sottocultura, come il rap mettendolo al servizio della frivolezza piuttosto che dell’impegno, o che di indie, nell’indie, ci sia rimasto solo il nome (e appunto l’etichetta), abbiamo la reale percezione di quanto sia sempre tutto più controllato e banalizzato.
È uscito il nuovo disco dei 99 Posse e probabilmente il ragazzino di oggi non se ne fa nulla, perché la protesta è anacronistica, perché gli è stato messo in testa che quella musica è per vecchi, che non dice più nulla, che pensare a quelle cose non ti fa essere figo e quindi è meglio lasciar perdere.
Io ho quasi 36 anni e un nipote che ne ha 18. Con lui parlo tantissimo di musica perché a me interessa sapere cosa muove i ragazzi e da parte sua c’è un interesse ad andare più in là di quanto non gli venga imposto. Ma è fortunato perché ha un interlocutore che gli fa vedere un po’ più in là. Non tutti i ragazzi oggi hanno questa possibilità, purtroppo.
Collegandomi ancora ai 99 Posse, c’è una loro frase per me fondamentale:
Sono la garanzia che c’è la democrazia
Ma vogliono che io stia nella mia bella corsia
Che se si accende la spia arriva la polizia
Nel momento in cui noi pensiamo che negli Stati Uniti (e ragioniamo in questo senso come riferiti a un mercato a parte) ci sono esempi di musica che comunque porta temi socialmente impegnati all’interno del mainstream.
Questa Musica c’è perché fa parte del gioco. Pensiamo ai The Roots: sono la band di Jimmy Fallon, in uno dei programmi più seguiti degli Stati Uniti.
In Italia, a livello politico, non c’è nessuno che dissente davvero.
Oggi io sono contento di avere nel roster di Django Concerti artisti come Inoki Ness e Murubutu. Da una parte Inoki che pur rapportandosi al mondo discografico di oggi ha fatto un disco che è molto libero dal punto di vista artistico e dall’altra Murubutu che nel backstage viene raggiunto da ragazzini che gli dicono che stanno studiando sui suoi versi, lo chiamano “professore”. Entrambi si discostano dai temi del mainstream e sono casi piccoli, per carità, ma sono un segnale.
O ancora penso anche a Davide Shorty sempre molto attento alla parità dei diritti civili.
Ci vuole molto coraggio oggigiorno a parlare di questo nella nostra nazione.
Un’amara constatazione, qualcosa con cui dobbiamo fare i conti.
Carmine ed io ci salutiamo qui.
Resto con la consapevolezza che persone che vogliono bene alla musica nonostante tutto ci siano e che Django Concerti sia uno di questi punti di ritrovo.
Siamo partiti da una domanda, ne abbiamo sollevate altre cento, provando a dare qualche risposta. Forse è questo il bello: porsi domande.
Alle quali cercare di rispondere ciascuno per il nostro piccolo con disarmante sincerità anche a costo di essere più scomodi del mainstream (o dello status quo).
I problemi nell’RnB sono la parte di percorso che ho eliminato dalla volta in cui ti ho accompagnato a fare un giro attorno a questa musica.
Ma per onestà intellettuale devo chiederti lo sforzo di leggere una cosa piuttosto lunga: devo accompagnarti anche nella parte oscura, quella delle cose che secondo me non vanno bene.
Quella dei problemi nell’RnB che poi è quella parte del discorso che, forse, non vuoi sentirti dire.
La scorsa volta si accennava al “progresso”.
Un “progresso” che però avrebbe bisogno come non mai di essere gestito, incanalato e presentato.
In che senso?
Nel senso in cui la musica RnB va avanti, si modifica ma il suo DNA resta quello di sempre. E spesso tutta la bordata di migliaia di artisti pronti ogni settimana a farti sentire la loro creazione più nuova si perde nel fresh semplicemente spegnendosi.
Parliamoci chiaro: non è che se è strano allora è bello, avanguardista e ti fa sentire figo se dici di ascoltarlo. Ok, a volte sì, ma soltanto a volte.
Ancora più chiaro: in troppi oggi “dicono” di ascoltare certe cose “che sono l’oggi della cultura black, che sono il domani e il dopodomani della musica e che se non le ascolti e non ti piacciono sei out”.
Balle.
Oggi c’è un grosso problema qui.
Grosso quanto un palazzo e grosso come tutta la storia della musica black stessa.
Anzi, forse i problemi sono più di uno.
Partiamo da qui: i problemi nell’RnB sono nelle produzioni.
Troppo spesso ci troviamo ad ascoltare cose che fanno sanguinare le orecchie per la tanta approssimazione che presentano.
C’è un beat, c’è uno strumentale e sopra ci hanno messo uno che fa rap ma che non c’entra niente con quella produzione, semplicemente è un karaoke fatto alla bell’e meglio.
Si sente da lontano che non c’è stata l’idea del progetto, che non c’è stato un lavoro coordinato fra chi ha scritto e realizzato la parte strumentale e chi ha pensato fosse innovativo fare rap mugugnando raccontando un disagio a caso.
L’RnB è un’altra cosa.
Poi arriviamo qui: i problemi nell’RnB dipendono dalle canzoni fresh?
Non è bello che non ci sia una struttura, non sei Berio. E lo chiami RnB non Fanta Jazz o Classica Contemporanea.
Questo dovrebbe già essere sufficiente. Non ci sono la strofa, il ritornello, l’hook e il bridge.
Perdi completamente ogni senso dello spazio e della misura. Insomma, anche se dici di essere fresh alla fine sei in pratica solo un po’ di shit.
Bisognerebbe davvero fermarsi un attimo e bilanciare il contesto.
Farlo strano non significa farlo bene.
Ad esempio quando Prince decise di fare funk senza il basso ci regalò ‘When Doves Cry’.
Prince era un genio.
Non è che ci siano milioni di geni al mondo, oggi.
Anzi.
E si sente.
I problemi nell’RnB sono anche quelli di chi fa le canzoni per Spotify.
Questo significa che l’artista decide in un momento di infinita stitichezza di distribuire una canzone che dura un minuto e mezzo perché così la gente la ascolta tante volte di seguito e lui va primo in classifica (per quanto le classifiche non contino più nulla, dai, smettetela di farne e di consultarne che oramai sono una roba senza senso).
Allora, caro artista, lascia stare. Spotify paga pochissimo, il tuo pezzo è imbarazzante e dovresti pensare ad altro prima di pubblicarlo.
Tipo a finirlo, per esempio.
Evitando alla musica che in teoria è la tua espressione necessaria di diventare un problema. Tuo, prima che nostro.
Tutte queste cose, tutte, sono presenti nell’RnB oggi. Sono i problemi dell’RnB.
E quello che mi manda ai pazzi è che ci siano pseudo riviste, pseudo esperti che ne parlano come se fossero dei capolavori, delle pagine sublimi di musica celestiale. E ne parlano mostrando le partnership di Tyler The Creator con gli stilisti, di Drake che mette nel video una casa acquistata da Paperon De Paperoni, del fatto che Beyoncé mandi dei fiori a Taylor Swift o che ascolti estasiata Frank Ocean (quando ha in casa Solange, per dire il senso della misura dei guru).
Insomma, ne parlano senza MAI far riferimento alla musica.
Rimane la domanda da mal di testa: non si fa riferimento alla musica perché non la si ascolta, perché è davvero ininfluente e brutta, oppure perché l’importante è DIRE di ascoltare qualcosa per poi ignorarla bellamente fingendosi credibili e intenditori?
Scena madre, esterno giorno.
– Oh senti che stile che ha questo con le scarpe di tizio, si fa fare le foto da caio, lo veste lo stilista sempronio.
_ Sì, ok, ma cosa devo fare? Sentire o passare in rassegna le marche che si mette addosso?
Ecco il problema.
Distanziarsi dall’hype, osservare gli artisti che intraprendono un percorso, che sviluppano la propria arte prendendosi dei momenti di silenzio nei quali si impegnano a cercare quell’esatta dimensione li rappresenti, che prestino attenzione a come scrivono, a cosa scrivono e a come viene prodotto quello che hanno pensato, che abbiano un progetto da portare avanti e non siano alla rincorsa di un ennesimo endorsment fuori contesto.
Di questi ce ne sono tanti, e fanno musica RnB, cercando di farla bene.
Semplicemente, non è giusto che non trovino spazio per il semplice motivo che per quelli fresh è più importante parlare del fatto che Tyler The Creator abbia fatto una canzone mediocre per lo spot della Coca Cola.
Oppure nascondere la testa sotto la sabbia e parlare di Silk Sonic come qualcosa di rivoluzionario e bellissimo quando è mera riproposizione nostalgica di un pezzo di storia della musica black (senti questi qui sotto come sono fresh).
Ah, cari guru, la prossima volta che mi incensate Silk Sonic come la nuova rivoluzione e poi mi dite che i pezzi di Al Green suonano vecchi vi prendo a roncolate, direttamente, così ci sbrighiamo prima.
Oppure gli stessi guru che ancora ritengono H.E.R. una divinità dell RnB anche quando le commissionano pezzi per la Disney che lei porta a casa rifacendosi male a Frozen.
Non è lesa maestà ammettere che un artista fa un passo falso e poi – diciamocelo chiaramente – non è che tutto quello che un artista esprime (no, non uso il termine ‘produce’ perché in questo contesto è anche più orrendo di ‘urban’) sia fondamentale capolavoro futurismo.
E del futuro occupiamocene domani, per incominciare.
Quindi i problemi nell’RnB sono anche i guru, che non sono l’RnB.
C’è una cosa, ancora, da sottolineare, emersa da una delle chiacchierate con Simone Niga.
Per coloro che hanno scoperto soltanto ora Anderson .Paak o la stessa H.E.R. esclusivamente perché sono stati chiamati a cantare con l’artista più “conosciuto” o dalla major cinematografica per eccellenza.
Questo è soltanto un sintomo della quotidianità, un povero rituale che si consuma spesso.
Una quotidianità che dipende in maniera indissolubile dalla superficialità.
Non tanto di chi ascolta, ma di chi scrive e comunica.
Perché – diciamolo senza mezzi termini – la “stampa” (internet, cartacea ormai non esiste più) resta nella propria zona di conforto, rimane un muro di gomma impegnato semplicemente a pubblicare amarcord, ti ricordi quando, le dieci canzoni di, quando Beyoncé ha ascoltato Frank Ocean… Un muro ovviamente calibrato sul prendere clic per far aumentare le viste di quel banner che porta loro due euro al giorno.
Non la si fa, informazione, sui siti qui in Italia.
Si fanno i titoli e poi si pubblica – quando va bene – il minimo indispensabile in una recensione tiepida – possibilmente mutuata dal comunicato stampa che tanto è già scritto – tempestata di popup pubblicitari e distrazioni (le firme che vale la pena di leggere nonostante questo sono poche e le trovi cercando su Google ‘Michele Boroni’).
Quello che dispiace, di questo andazzo servile nei confronti del clic, è che le persone alla fine o non leggono proprio o si accontentano di quel che passa il convento (anche perché quando è gratis figurati se ti prendi la briga di lamentarti) e come fai a dar loro la colpa?
E in questo panorama desolante è difficile per chiunque essere informato, avere una spinta ad essere curioso, perché è importante pubblicare sempre, pubblicare tanto, pubblicare inutile sporcizia spaziale senza considerare minimamente che fare informazione non significa mettere insieme due righe e un link per farci sapere che (prendo ad esempio) “Un matto salì sul palco e morse il sedere a Lou Reed”.
Ma torniamo a noi, più o meno.
La libertà degli artisti è un bene prezioso, è un’energia bellissima. Ma se non viene incanalata si disperde nel nulla.
Ma se le etichette non investono nello sviluppo dei loro talenti finiscono per diventare fresh quanto una foto su Instagram che verrà mangiata in meno di dieci minuti da un algoritmo che la confinerà nell’oblio.
Non è sempre colpa di Spotify, mi pare logico, le colpe di Spotify sono altre semmai.
La smetto qui, scusami ma devo ancora andare a cercare quello che ha attaccato con la colla Pritt Daniel Caesar, Giveon, Khalid, Chance The Rapper, Burna Boy e Martin Luther King (!!!!) al pop nemmeno tanto bello di Justin Bieber in crisi mistica. Qualcuno lo ha anche definito RnB. Segno dei tempi. Tempi che sono confusi, a ogni latitudine.
E qui si rimane perplessi cercando di capire il senso di queste storture fatte passare per dogmi.
Anche se un senso, forse, non c’è.
OMBO o per esteso Open Mouth Blues Orchestra.
Necessario parlarne, necessario farla raccontare. Necessario che si racconti. Perché alla fine il blues è un racconto. E perché qui sopra ne scriviamo di rado di blues. Forse questa è addirittura la prima volta.
E allora che sia un racconto sgangherato (perché io non sono capace di raccontare in maniera lineare e sembra tutto sempre una serie TV), ma che se vuoi leggere in maniera più diritta lascia perdere quello che c’è qui sotto e vai a questa pagina dove ho raccolto vai a questa pagina dove ho raccolto le informazioni ufficiali attorno a OMBO.
Se invece ti fidi e vuoi fare un’esperienza puoi continuare qui.
Perché c’è sempre stato il blues a Milano.
Quello della Milano Blues. Oppure Milano è proprio una città blues.
Intanto è doveroso spiegare una cosa: sì, a tutti gli effetti il blues è parte della musica black. Se vuoi te lo spiega anche Focus.
Perché se diamo ragione a chi afferma che il blues è il pane degli sconfitti, che il blues non ama i vincenti ma è la rivincita dei perdenti, allora dobbiamo anche dare ragione al blues che è la musica dei neri più poveri e meno rispettabili.
E alla fine vuoi vedere che il blues invece vince così come in un certo senso vincono tutti i non-eroi dei romanzi noir? Sarebbe una delle cose perfette di Milano.
Se ci pensi bene e mandi a James Ellroy ‘Street Off – Blues Saves The World’ della OMBO vedrai che lui potrebbe tirare fuori un romanzo in cui il protagonista è un vincente.
E magari il protagonista sarebbe donna. E si chiamerebbe come un disco di Tom Waits che di blues se ne intende.
Insomma, secondo me James Ellory prenderebbe ‘Street Off – Blues Saves The World’ e se ne impossesserebbe peggio di come fece per Black Dahlia.
Qui c’è la Milano Noir, la Milano delle periferie e delle sue storie così lontane da quella stessa Milano da bere, delle sue storie più vere.
E in questa Milano vivono, probabilmente nella stessa palazzina dalle parti di Turro, Donny Hathaway, Bob Marley, tutta la combriccola della Art Ensemble of Chicago che è rimasta a Milano a causa della pandemia, quello che fu scritto per Billie Holiday e che le costò caro in questa palazzina è appeso in bacheca a giusto monito per ricordare che qui dentro, dalle parti di Turro, le cose possono anche costare Sangue Sudore e Lacrime (e non è per Spinning Wheel).
Dice la polizia che Milano ha tante facce, quella che la OMBO porta in giro è quella sporca, quella nera, quella – appunto e non solo – blues.
Perché c’è sempre stato il blues a Milano.
La OMBO è un gruppo di matti scriteriati (nel senso buono o forse anche no, dipende da come la vuoi vedere). Gente della Milano che stranamente non si prende sul serio, decisamente poco imbruttiti e sempre alle prese con qualche canzone, ovunque essi siano. Insieme oppure no.
Là, dedicati interamente a spacciare note e blues come fossero atti di gentilezza senza senso, fatti perché è una necessità, perché è un bisogno, il loro modo di vivere. Della OMBO.
Loro sono in giro dal 2007 e non sono superstiziosi perché sono tredici. Però non hanno mai vinto al Totocalcio, nemmeno quando si giocava tantissimo fino a vent’anni fa.
Prendono la radice dell’improvvisazione, vanno alla base della blackness nella musica, il free jazz americano (nella palazzina dalle parti di Turro puoi riconoscere il grande murale dove hanno ritratto tutti i componenti della Art Ensamble Of Chicago, se sai guardare bene) e siccome loro sono di Milano ovviamente hanno mischiato tutto con il blues.
Perché c’è sempre stato il blues a Milano.
Come quella volta che fecero un viaggio spacciando Pusherman di Curtis Mayfield raccontandosi tutti gli aneddoti di quella volta in cui gli amici di Youngblood Priest arrivarono sui Navigli.
Quante note sono passate da allora e quante ne sono state pensate e suonate dentro quella palazzina dalle parti di Turro e poi fuori, sulle strade di Milano, a riempire come fosse un kintsugi tutte le crepe delle periferie e arrivare a sbattere in faccia il blues anche al Duomo e alla madonnina. Spegnendo i club, gli aperitivi, lo shopping, o magari infilandosi in quei sacchetti con le marche grosse che hanno scoperto che esiste il blues e dismessi gli abiti firmati e costosi si sono fermate sulle scale per la Metro a piangere sciogliendo trucco e certezze.
Perché c’è sempre stato il blues a Milano.
Perché la OMBO non la puoi raccontare, la OMBO è come il blues. O lo vivi o niente o per lo meno ti accontenti, insomma. Ed è anche per questo che non si trovano le parole per raccontare ‘Street Off – Blues Saves The World’ che è un progetto blues ma che vive anche come fumetto, diventa quasi persona più del cieco con la chitarra che – appunto – suona il blues. A Milano.
Perché c’è sempre stato il blues a Milano.
Allora sai cosa c’è? Intanto ‘Street Off – Blues Saves The World’ te lo raccontano loro e poi c’è anche che la OMBO se ti fidi e ti senti già un po’ peggio di quando hai iniziato a leggere te la faccio ascoltare dopo un’introduzione che è dentro le pieghe del blues di ‘Street Off – Blues Saves The World’ e che suona così:
Per tutta la gente che vive la strada e che tiene in tasca il tempo di un sorriso:
ci presenteremo all’apertura del civico vicino, approfitteremo del finestrino abbassato dell’auto che passa, raggiungeremo la fermata dell’autobus da cui ti faremo scendere in fretta o salire un po’ più tardi, suoneremo per le mani che troveranno il tempo di incontrarsi fra cibo e vino, suoneremo per i passanti che non si fermeranno e per quelli che fermi in piedi vorranno farsi stupire.
E poi alberi, balconi… suoneremo per chi non ci conosce, per chi ci troverà per caso, per chi verrà apposta e per chi tornerà ancora.
E poi adesso la OMBO non gira per strada, è in quella palazzina di Turro perché non si può suonare, non si può uscire, non si può fare musica. Però siccome c’è sempre stato il blues a Milano è il blues a venire da te. Perché per ascoltare ‘Street Off – Blues Saves The World’ adesso ti puoi arrangiare con Spotify, ma se ‘Street Off – Blues Saves The World’ lo vuoi vivere devi fartelo arrivare a casa. Arriva solo lui, non tutta la OMBO quindi sei in regola. Ti basta mandare un messaggio attraverso la loro pagina Facebook
Il fumetto è un blues, dentro ci sono le matite di Nobez e quel blues fatto di matite china carta inchiostro lo ha scritto Lorenzo Vergani (che poi è il Signor Ombo) e so che piace tanto a James Ellroy. Lo so perché quando gli hanno chiesto “ma come mai vorresti tanto ambientare un romanzo a Milano?” Lui ha risposto “Perché c’è sempre stato il blues a Milano”.
Adrian Younge ha una passione incredibile per le colonne sonore, per i concept album e per riprendere il passato mettendolo a posto nel presente.
Lo ha fatto, tra gli altri, con Delfonics e Souls Of Mischief ad esempio.
Una discografia immensa, articolata, nella quale a volte sembra difficile potersi immergere completamente perché Adrian Younge è uno di quelli che la creatività la prende sul serio (produttore, musicista, film maker) e con un incredibile senso del multi tasking porta avanti progetti diversi tutti insieme. Facendolo in maniera eccellente.
E poi ha un negozio di dischi a Los Angeles e il suo collaboratore più recente è Ali Shaheed Muhammad di A Tribe Called Quest con il quale lavora alla serie ‘Jazz Is Dead’.
La sua cifra stilistica è quella dell’artigiano.
Lavora in analogico, non usa emulatori, i suoni sono veri e il lavoro certosino.
La sua etichetta, Linear Labs, fa di questo approccio ovviamente un vanto e per quello che mi riguarda di certo c’è la consapevolezza che rispetto a tanto fast food di produttori qui siamo di fronte a uno chef stellato.
C’è anche un legame particolare con la musica “made in Italy” e in particolare con alcune prospettive di un certo tipo di cinema e da qui il suo amore per le colonne sonore.
Che addirittura compone sia per opere esistenti (ad esempio la serie Luke Cage) o per opere che non esistono e ne fa un disco con Ghostafce Killah.
E queste sono solo alcune delle pennellate che possono dare un’idea della complessità di Adrian Younge. Una complessità che trova un punto altissimo di equilibrio nel suo lavoro più recente che è ‘American Negro’.
“We aren’t aware enough of black history, nor of the integral role black people have played in building America. There is an educational sterilisation going on and it’s my duty to make people understand that history of racism – something America has pioneered.”
Un progetto che ha l’ambizione di raccontare 400 anni di storia americana dalla prospettiva dei neri che lui stesso definisce il suo ‘What’s Goin’ On’. E ne ha ben ragione.
Adrian Younge è uno che conosce il mondo in cui opera e sa che non basta un concept album per quanto magistralmente orchestrato come ‘American Negro’ e che questo è un progetto al quale serve di più.
Ecco quindi che oltre alle 26 tracce del disco ci sono un podcast che si intitola ‘Invisibile Blackness’ con interventi di Chuck D, di Ladybug Mecca di Digable Planets fra gli altri che si trova gratuitamente su Audible qui e ‘Tan’ un cortometraggio che arriverà su Prime Video a sigillare la transmedialità del progetto.
Non gli basta più unire i puntini, bisogna mettere quei puntini sulle i. Bisogna fare in modo che la gente possa accedere alla storia del razzismo per capire meglio di cosa si tratta, per fare in modo che le persone siano consapevoli oggi quando vedono il razzismo e non minimizzino questa violenza dietro cliché o stereotipi o – peggio ancora – come qualcosa che non li riguarda.
Adrian ha studiato giurisprudenza, si è specializzato nella branca legata all’entertainment, suo padre era avvocato, lui ha insegnato legge e questa volta sale in cattedra.
“Racism is a learned behaviour and one America developed through building its nation on the backs of slave labour and those economic gains. America is a slavocracy: it is a nation founded on bigotry, and those principles continue today. People might think racism no longer exists because there is no longer a slave system, but they don’t realise the laws that enabled the slave system still put us in a position where we have to jump over insurmountable handicaps to just become equal.”
L’immagine scelta per il disco è quella del linciaggio, lo stesso che Billie Holiday ha cantato in ‘Strange Fruit’ e lo stesso che costituisce in primis la trama di “The United States vs Billie Holiday” che è uno dei film più importanti del 2021.
A pensarci bene l’impiccagione dei neri, nel sud degli USA, semplicemente per il colore della loro pelle era una pratica che i bianchi utilizzavano come teatro, dove i bianchi prendevano i souvenir, dove si scrivevano le cartoline per dire “io c’ero”, uno spettacolo dell’orrore e della bassezza umana, il simbolo agghiacciante di un razzismo sistemico. Lo stesso che ha ucciso George Floyd, Eric Garner, Trayvon Martin, “say their names”…
Lo stesso che penalizza le persone per il colore della loro pelle, che le uccide, che “They can’t breathe”.
Un messaggio forte e chiaro quello di ‘American Negro’ che lo stesso Younge sintetizza così:
“Ho voluto che questo progetto potesse essere una sorta di ‘What’s Goin’ On’ inquadrato dalla prospettiva di James Baldwin che si aggancia a Marvin Gaye e che viene assistito da David Axelrod”
David Axelrod (che è uno dei riferimenti di Adrian Younge insieme a RZA del Wu Tang Clan) preso come unicum nell’attitudine di Younge dentro e fuori dal suo lavoro con la produzione per la leggenda jazz Cannonball Adderley, con Lou Rawls e come musicista poi campionato anche da Dj Shadow nel monumento ‘Endtroducing’ (ad esempio in ‘Midnight In A Perfect World’) , da Macy Gray (I Try), e Dr Dre (The Next Episode) per citare alcuni degli oltre 500 artisti che hanno “preso” da Axelrod.
“Quindi ci ho messo il soul e la psichedelia ma ho voluto comunque che fosse estremamente accademico e ho usato lo spoken word. Ci sono io che parlo per alcuni minuti spiegando i temi e poi parte una canzone che riflette quello di cui io stavo parlando. Ho voluto creare quel meccanismo della tradizione orale tipica della cultura black come se questo disco fosse la continuazione di quelle conversazioni. Per me l’anima, il soul, è quando tu parli con l’aiuto dei tuoi antenati e per me questo lavoro è semplicemente la continuazione di quest’anima, libera, perché nessuno ci viene a dire quello di cui possiamo parlare. Questa volta avrei potuto metterci soltanto della musica, ma avevo bisogno di veicolare un messaggio chiaro, preciso, perché posso comunque fare anche altra musica ma non ho tante possibilità di parlare alla gente di questi argomenti e farli entrare nel mio mondo”.
Puoi ascoltare The American Negro qui:
Lo stato dell’ RnB – che è un’etichetta più che un genere musicale – è oggi quanto mai irrequieto.
I cambiamenti sono all’ordine del giorno (e proprio per questo la sua descrizione viene aggiornata più spesso del tuo feed di Instagram e proprio per questo non me la sento di definirlo perché se cambia continuamente come diamine lo definisci?).
Se vogliamo rifarci a qualche pagina precedente di questa nostra sola, unica, grande storia, non possiamo che osservare come l’influenza di altri “generi” vicini (il soul, il rap, il jazz, l’onnipresente gospel) sia sempre stata presente e altrettanto sempre osannata dal pubblico. Che comunque accoglieva di buon grado le escursioni in musica classificabile comunque come vicina. Un po’ come fa l’algoritmo di Spotify quando ti dice che “potrebbe piacerti anche…”
C’è stato, però, un fattore di sicura rottura che spesso non viene preso in considerazione nella nostra sola, unica grande storia.
È internet.
Già, perché internet ha i link, e con i link salti di palo in frasca (tipo se parti da questo link non so dove vai a finire, magari anche fuori da questo sito) e così le linee di demarcazione (e le etichette, sì, anche le etichette) vanno un po’ a farsi benedire. E anche l’algoritmo, qualunque esso sia.
Perché seguire un discorso con i link smaterializza, devia, porta altrove. Possibilmente fuori dalla bolla.
Volendo partire da quello spazio empirico che sono diventati i Grammy, ora per l’RnB di categorie ce ne sono diverse: la Best RnB, la Best Traditional, la Best Progressive. Questo perché è stata cancellata la ‘Urban’ da quando si è deciso che Urban sia un termine razzista (e su questo personalmente sono d’accordo, al di là del significato che nel contesto è razzista proprio perché ‘Urban’ fa schifo).
“Urban è una parola in codice che l’industria usa per la musica che non gradisce. Ma se il mondo la ama… allora è pop”. (Tricky Stewart, produttore di ‘Umbrella’ di Rihanna)
Diventa quindi difficile orientarsi, soprattutto per il pubblico che alla fine non ci capisce più un accidenti, ma probabilmente nemmeno si pone il problema.
Soprattutto perché tutto quello che non hai capito lo metti nel “Progressive” e te la cavi con poco senza esporti. E alle persone, quando ascoltano la musica che a loro piace, della tua etichetta non interessa nulla. Lo stato dell’RnB è proprio questo: per quanto tu lo voglia incasellare, lui non ci sta.
Si diceva, anche per l’RnB è arrivata “l’internet”. La prendo un po’ larga.
Prendo il caso del Lights On Festival del Settembre 2019.
Questo festival organizzato da H.E.R. e dal suo team ha raccolto 14.000 persone in un palazzetto per ascoltare quello che viene definito come “nuovo RnB”. Forse è il “progressive RnB” di cui parlano i Grammy. O forse nulla di tutto questo.
Di fatto a questo festival si sono esibiti Daniel Caesar, Ari Lennox, Summer Walker, Kiana Ledè, DaniLeigh, Lucky Daye.
C’è chi dice di averli visti H.E.R. e Jeff Robinson (che precedentemente ha lavorato con Alicia Keys) sorridere nel vedere il sold out fatto da artisti che hanno meno di 25 anni in media e che ha venduto tutti i biglietti in uno spazio temporale pari a mezz’ora.
Sì, va bene, ma cosa c’entrano soul rap jazz gospel, le categorie dei Grammy e un festival di emergenti in America e internet con me? Lo so che te lo stai chiedendo.
Se negli anni 90 (e anche 00 ad essere onesti) le componenti dell’RnB erano i generi adiacenti che facevano capolino e in particolare il gospel era decisamente evidente, oggi è un meltin’ pot di cose, sono tutti i percorsi dei link che spezzano le descrizioni e le definizioni.
Sembra che oggi chiunque venga inserito nel calderone dell’RnB abbia la sola urgenza di affermare che “ok, la mia musica ha a che fare con l’RnB ma non mi mettere in una scatoletta perché potrei seguire un altro link e pur restando fedele a una matrice RnB tu non sapresti più da che parte sei voltato quando mi ascolti”.
Dove prima era facile individuare il gospel, dove era il festival del melisma (l’ho raccontato qui) oggi la contaminazione vede allineati dei pianeti molto più strani e meno identificabili.
C’è RnB, rap, Afrobeat, rock, pop, latino, elettronica, ambient. E non ci stanno più nelle radio, fanno confusione, non sono così immediati da essere riconosciuti al volo, non sono così….pop da essere rassicuranti per occupare un posto tra un whatsapp dell’ascoltatore e il commento al post preso dai social fra una pubblicità e l’altra (il discorso delle radio è serissimo e doloroso, non so se avrò mai la voglia di affrontarlo e non c’entra con lo stato dell’ RnB).
Si chiama progresso, bellezze. Non Progressive (che non ha senso), ma progresso. Del resto dovremmo esserci abituati.
Anche perché se tutti avessero semplicemente cantato come Sam Cooke noi non avremmo mai avuto Marvin Gaye e se oggi tutti cantassero come Mary J Blige noi non potremmo avere la quantità enorme di bella musica che possiamo ascoltare e che proviene sempre dalla storia della black.
Insomma, oggi non avremmo né Frank Ocean né SZA, né The Weeknd, né Serpentwithfeet né Nakane né 6Lack e nemmeno Drake o Ella Mai. Facciamocene una ragione.
Loro sono artisti nati da contaminazioni, da lungo lavoro su addizione e sottrazione di elementi presi dalla tradizione o dalla contaminazione e alcuni inventati di sana pianta o presi dai link.
Forse è proprio per tutte queste cose che o non ne parliamo più o lo chiamiamo tutto RnB. Identificando una sensazione, una conseguenza, un effetto.
Oggi lo stato dell’ RnB ha anche parecchi svantaggi perché è proprio questa sua (nuova?) natura a fare in modo che le luci della ribalta non siano accese completamente su di lui. Fa lo schivo, si nasconde e quindi per il mass market diventa irrilevante, ti dicono che è morto, che non esiste più. E invece, semplicemente, si è spostato un po’ più in là.
Non un’etichetta messa su dei dischi per facilitarci la vita. Lo stato dell’ RnB oggi è questo, ed è bellissimo perché si apre a mille nuovi colori.
Tutto sommato anche questo fa parte delle cose belle della musica black.
RnB in Anno Domini 2021.
Etichette musicali per complicarci la vita: RnB e Hip-Hop, fra le troppe.
A prescindere dal fatto che personalmente preferisco chiamarla tutta “black music” che poi è la radice da cui arriva tutto e si spinge indietro, più indietro del blues.
Comunque per mettere a fuoco lo scenario parto da due etichette. RnB e Hip-Hop.
Oggi come oggi queste due etichette sono messe spesso insieme, addirittura sovrapposte nella stessa canzone, definendo, in ampia misura, cosa intendiamo per RnB.
Un viaggio che dura da 50 anni e che oggi vede giungere in queste grandi famiglie artisti come Lizzo o The Weeknd.
Alla faccia dei puristi che ahimè sprecano un sacco di tempo in discussioni senza senso e senza uscita su cosa sia o no RnB. Che poi è soltanto un’etichetta, qualcosa di effimero per definire la musica che per sua stessa natura è indefinibile.
Il 1990 è stato uno spartiacque: in America è nata la Hot RnB Singles Chart dopo che per otto anni quel calderone era stato battezzato Hot Black Singles.
Razzista, terribilmente sbagliato, etichetta coniata per relegare quella musica ad un ascolto pressoché consumato da neri.
Tanto che lo stesso RnB si è tolto da quell’etichetta da solo, travalicando gli steccati del colore e puntando alla sua essenza: a quello che comunica, a prescindere dalla melanina dell’artista che sta comunicando.
Grazie a Dio. Anche se ancora per molti il razzismo sistemico vive anche qui. C’è tanto lavoro da fare, ancora.
Che poi inizialmente l’RnB era in commistione stretta con il new jack swing (altra parrocchia ma sempre black music anche qui) ovvero un amalgama creativo fra l’RnB degli anni 80 e la produzione Hip-Hop. Hai presente ‘Remember The Time’ di Michael Jackson?
Arriva il 1995. E con lui anche la dimostrazione che l’RnB poteva essere venduto, e bene, che poteva essere in vetta alle classifiche, e per molto, che poteva essere una musica trasversale e che potesse piacere a neri, bianchi, gialli, viola e anche ai blu.
Nel 1995 esce ‘Fantasy’ di Mariah Carey.
Otto settimane in cima alle classifiche (e nel 1995 le classifiche contavano ancora quanti dischi uscivano, scontrinati, dai negozi) e disco che dà il beneplacito all’uscita e al successo ad esempio di ‘Mo. Money Mo’ Problems’ di Biggie e ‘Crazy In Love’ di Beyoncé con JAY-Z.
Vuoi chiamarlo ancora Pop o ti decidi a chiamarlo RnB?
Secondo me puoi chiamarlo come ti pare, ma di fatto è qualcosa che ha fatto la storia.
Perché poi, qualche anno dopo, arriva anche Rihanna e ci regala ‘Pon De Replay’ e poco dopo ‘What’s My Name’.
Come lo chiami, adesso?
Come la chiami la musica che fanno Justin Timberlake e Alicia Keys all’inizio dei duemiladieci, come le chiami ‘Suit And Tie’ e ‘Girl On Fire’?
Lo sostengo da sempre.
Il bello della musica black è questa capacità di mutare, di assorbire quello che le sta attorno, di spiazzare chi la ascolta con una sfumatura nuova, con un’altra rivoluzione, con un nuovo codice che non ti interessa nemmeno leggere ma adori “sentire”.
Ecco perché è RnB (che resta sempre una piccola misera etichetta) Mariah Carey, lo è Beyoncé, lo è SZA, lo è Justin Timberlake e lo è Frank Ocean, lo è R.Kelly e lo è Miguel.
Il problema di definire alcuni di questi “pop” e altri invece “RnB” è tutto nella tua testa. Se ha successo diventa pop. Niente di più sbagliato. Se non corrisponde ai criteri della musica delle classifiche “black” degli anni ’90 (quando l’RnB era quasi un’altra cosa rispetto ad oggi ed era pop-olare perché stava in cima alle classifiche ed era ovunque).
The Weekend non fa pop (del resto ci sono smaccate differenze fra ‘Blinding Lights’ e una qualsiasi canzone dei One Direction – mi pare) a meno che per “pop” non intendi “popolare”, “riconosciuta dalla massa”, e allora te lo concedo.
Ma poi ti ritrovi con ‘Good Days’ di SZA. E lì c’è anche il neo soul, incorporato nella sua essenza tradizionale. E ti fermi a pensare un attimo a tutto questo.
E improvvisamente ti viene in mente una canzone di Lauryn Hill. Qualsiasi.
Perché il suo album è il posto da cui tutto ha avuto senso, ha avuto inizio, ha avuto il coraggio di uscire con un disco che ha definito quello che oggi chiamiamo ancora RnB. Nonostante RnB sia un concetto ormai diventato soggettivo, sfumato, che non ha contorni e codici specifici a meno che l’utilizzo del melisma* sia cardine per definire una musica.
Il che equivale a dire che se c’è la chitarra allora è rock.
E poi, via, il melisma dal 2007 è diventato roba da boomer: chiedilo a Keyshia Cole o a Leona Lewis, per dirne due.
Quello che interessa, la discussione che sarebbe bello nascesse è quella che non cerca di capire cosa sia successo ma cerchi di capire oggi quali siano le sfumature del presente, quelle sfumature che fra trent’anni andranno a finire su un articolo come questo dove qualcuno continuerà quella serie di nomi.
Mettendoci Gallant, Kenyon Dixon, Avery Wilson, Anderson .Paak, Lianne La Havas, Jazmine Sullivan, Brik Liam, Kori James…
*melisma = ornamento melodico che consiste nel caricare su una sola sillaba del testo un gruppo di note ad altezze diverse. Chiamato anche “ghirigoro” nel mondo del Karaoke. Esempio illustre: Visions Of Love di Mariah Carey o le differenze in I Will Always Love You fra Dolly Parton (senza melisma) e Whitney Houston (il festival del melisma). Si agevolano gli esempi
Mariah Carey:
Dolly Parton:
Whitney Houston:
Blackness è la storia degli uomini. E il libro di Carlo Babando.
“Bianco e nero, padrone e schiavo, come scritte al neon che si illuminano nel presente sfruttando e alimentandosi con la corrente nel passato. Ma quando inizia per l’esattezza quel passato?”
(Carlo Babando, "Blackness")
Già, ma chi è Carlo Babando?
È quello che scrive di musica su Blow Up, che spaccia dischi in centro a Bologna da Semm, che insegna storia alle superiori, che si dedica a un programma all’interno delle carceri minorili, che a volte la butta in caciara e guida un podcast, che ha scritto un libro su Marvin Gaye che ne dipinge nitidamente l’umanità all’interno di un contesto complicatissimo come la musica – nera – a cavallo tra gli anni 60 e 80.
Carlo Babando è anche quello che vedi nella foto qui sopra e che mi ha raccontato queste cose, partendo dal titolo del suo libro, Blackness.
Che è una storia di uomini dove ci sono la politica, la musica, la storia, la gloria e il fallimento, l’orgoglio e la paura.
Che è una storia attorno alla quale abbiamo chiacchierato in una delle nostre telefonate-fiume. Questo dialogo lo trovi qui sotto: ho tolto le mie parti perché è più bello stare a sentire Carlo, a voce sola, in prima persona.
Parto dal presupposto che la blackness sia un elemento radicato nella dimensione nera, non necessariamente afroamericana.
La blackness può essere comunicata e in qualche modo compresa da un bianco ma la blackness non riguarda e non ha mai riguardato i bianchi.
Se parliamo di neri, l’essere nero non ti conferisce automaticamente l’essere “Blackness Approved”, non hai un certificato.
La blackness è qualcosa che coltivi e che ha molto a che fare con la storia dell’Africa e del suo popolo.
Storica, sociologica e che un nero che sia americano o italiano non può non conoscere.
Quando parlo di blackness e cultura nera, in ogni ambito in cui mi accade – quindi sia nelle scuole quando insegno storia che quando parlo e scrivo di musica – entra sempre e comunque in ballo la cultura africana. Spesso quella non contemporanea.
Guardando a come stanno le cose oggi risulta evidente come Africa e America siano sempre più separate.
Uno degli episodi che chiariscono questa cosa è quello relativo alle critiche che ha ricevuto Beyoncé da parte della comunità africana e le accuse di essere stata troppo edulcorata nel rappresentare la blackness all’interno del suo progetto legato al Re Leone della Disney.
Spostando il discorso solo sull’Africa non si può prescindere dal tenere in considerazione il fatto che l’Africa è un continente. Gli africani hanno rifiutato l’immagine che viene data di loro come semplici uomini “pitturati” e con le gonnelline di paglia come invece lo stereotipo ha sempre raffigurato.
Da qui inizio a porre delle domande, partendo dal rapporto tra Africa ed Europa per arrivare fino all’ RnB contemporaneo attraversando gli ambiti quindi della storia, della musica e della letteratura.
Proprio in letteratura c’è un libro importante, quello di Booker T. Washington, che spesso viene preso come “anno zero”. Certo, la figura di Booker è importante, è una figura centrale della politica statunitense e conoscitore dell’Europa.
Ancora più indietro però dovremmo tornare a Leone L’Africano.
Quello può essere un altro punto di partenza, la convenzione di un “anno zero” allineando il rapporto tra continente Africano e continente Europeo attraverso la prospettiva mediata dalla cultura araba nordafricana.
Leone visse a Roma, tanti secoli fa, e rappresenta uno degli anelli di congiunzione tra le culture africana ed europea a cavallo con la scoperta dell’America.
Spostandoci sul piano della musica è facile notare che la prospettiva si muove a prescindere da queste coordinate.
Se pensi al triangolo atlantico che unisce i tre vertici Africa, America ed Europa e alla storia al suo interno è facile capire che sia una storia ancora in divenire.
Noi contemporanei ci riferiamo oggi, quindi, dentro questo triangolo, al periodo che sta a cavallo tra il medioevo e la storia moderna e usiamo come cesura fra i due momenti storici la tratta degli schiavi.
Possiamo partire da lì, è vero, ma la storia tra uomini neri e uomini bianchi, tra Africa ed Europa è iniziata molto prima di questa data, il nostro “anno zero” è molto tempo prima.
Pensa anche alla Bibbia dove questa storia è presente nel cantico dei cantici, pensiamo alla Regina di Saba:
“Sono nera ma bella, o figlie di Gerusalemme, come le tende di Kedar, come i padiglioni di Saba”
(Cantico Dei Cantici -1,5)
E anche al fatto che nelle rappresentazioni della natività ci sia Baldassarre, che è uno dei tre Magi, ed è nero ma è anche quello dei tre che è più distante da Cristo.
Quello che io mi sono proposto è l’analisi di questo rapporto tra bianchi e neri, un rapporto che non vede necessariamente prevalere gli uni sugli altri.
Si parla di razza con troppa faciloneria, da entrambe le direzioni.
Diventa necessario entrare nella complessità della storia dell’Africa.
E solo facendo questo sforzo possiamo renderci conto della logica che ribalta uno stereotipo della storia europea.
Diventa infatti impossibile pensare all’Africa come protagonista necessariamente e ineluttabilmente perdente.
Bisogna conoscere i rapporti tra i due continenti per capire come è andata, anche quando si parla di tratta degli schiavi perché anche qui dobbiamo andare indietro nel tempo, ben prima delle riunioni degli schiavi in Congo Square a New Orleans.
Sicuramente quello di Congo Square è un momento importantissimo: da lì facciamo risalire la nascita del jazz e delle contaminazioni tra la poliritmia africana e la melodia europea, ma ancora una volta non siamo andati sufficientemente indietro nella storia.
La schiavitù era un istituto che in Africa aveva una tradizione secolare che vedeva muoversi uomini da una parte all’altra del continente e arrivare in Europa ancora prima che gli europei raggiungessero Capo Bojador e quindi l’africa subsahariana.
Esisteva già, pur avendo connotazioni diverse da quelle impostate dalla cultura europea di allora. La condizione di uno schiavo in Africa (prigioniero di guerra, ad esempio) non era uguale alla condizione dello schiavo nelle colonie americane ed era ancora diversa dalla condizione di schiavo all’interno della cultura dell’Impero Romano.
Possedere schiavi, in Africa, voleva dire avere un mezzo per lavorare la terra poiché essendo diverso il concetto di proprietà privata nell’africa subsahariana era quindi necessario impiegare il capitale umano (oggi le chiameremmo risorse, nda) nell’agricoltura. Non si possedeva davvero la terra, ma i suoi frutti.
Lo schiavo era, tra le altre cose, anche uno dei mezzi che servivano per coltivare i campi. Il suo era a tutti gli effetti un trattamento diverso proprio in relazione a una storia diversa dell’istituto della schiavitù.
Nel libro ho cercato di semplificare questi passaggi che ho distillato anche dall’enorme lavoro di John Thornton, eminenza in merito alla storia del rapporto tra Europa e Africa, permettendo di comprendere a grandi linee queste differenze fondamentali.
È quindi importante che questo concetto, questo panorama storico venga condiviso e fatto arrivare soprattutto a coloro che sono inclini a credere che il bianco sia superiore al nero, che ci sia la consapevolezza di non essere schiacciato da un’ipotetica e non vera superiorità del bianco europeo.
Il bianco europeo non è arrivato in Africa dotato di intelligenza superiore che gli ha permesso di ingannare il popolo di un intero continente.
Il popolo africano non è mai stato un popolo di ingenui.
C’è anche Amiri Baraka che ha portato avanti questo pensiero in maniera molto dura e quando scriveva di musica lui lo faceva anche per parlare di molto altro.
Oppure, anche se in maniera più edulcorata, Barack Obama quando rivolgendosi alla società afroamericana criticava il vittimismo dell’uomo afroamericano il quale, spesso, non conoscendo la storia e il passato guarda all’Africa come a una terra di schiavi – e da qui cade nella spirale del vittimismo, del perdente per natura – invece che a una terra di re quale l’Africa è sempre stata.
We’ve got to say to our children, yes, if you’re African American, the odds of growing up amid crime and gangs are higher. Yes, if you live in a poor neighborhood, you will face challenges that somebody in a wealthy suburb does not have to face. But that’s not a reason to get bad grades, that’s not a reason to cut class, that’s not a reason to give up on your education and drop out of school. No one has written your destiny for you. Your destiny is in your hands—you cannot forget that. That’s what we have to teach all of our children. No excuses. No excuses.
You get that education, all those hardships will just make you stronger, better able to compete. Yes we can.
(Barack Obama, NAACP Centennial Convention)
Come dire, vediamo da una parte un’esaltazione, giusta, della cultura africana da parte di artisti africani e dall’altra a volte assistiamo a un’esaltazione dell’Africa da parte degli artisti americani che si rivela più ingenua.
Questo proprio perché spesso quel che manca è la presa di coscienza in merito alla storia africana.
Per dialogare alla pari con un uomo bianco è fondamentale avere la consapevolezza – provata da fatti storici, non da racconti mitologici – che nessuno dei due è superiore all’altro. Questo è fondamentale stamparselo bene in testa.
L’orgoglio africano non ha bisogno di rifugiarsi nello splendore del passato dell’antico Egitto che è sempre visto come qualcosa di più importante rispetto al passato dell’Africa subsahariana. La stessa cultura, la stessa grandezza ci sono in Mali, in Nigeria, sono storie diverse ma sono sempre e comunque storie di re.
Queste sono dinamiche a cui dobbiamo stare attenti.
Le dinamiche interne al continente africano spesso non arrivano in Europa, ma nemmeno negli Stati Uniti.
L’immaginario egizio che spesso ha connaturato jazz e soul storicamente non è aderente al retroterra culturale di chi è arrivato negli USA con le navi negriere dalla Africa occidentale.
Oggi c’è bisogno di parlare di determinati argomenti.
Anche se a volte le chiavi sono troppo ingenue da parte degli artisti e dei media.
Dopo l’ennesimo omicidio, quello di George Floyd (e andiamo oltre al fatto che lui fosse colpevole o meno, non è nemmeno più quello il punto della discussione), dove questi fatti accadono come se fossero la normalità anche di fronte a telecamere che li riprendono e li documentano, allora è ancora necessario parlarne.
Quello che è successo “dopo George Floyd” ha rappresentato a Minneapolis la presa di posizione di un movimento.
Black Lives Matter non è mai riuscito a ottenere un riconoscimento politico durante la presidenza Obama. Pur restando importante a livello di attivismo sociale, come tutti i movimenti rischia di essere frainteso dai media e anche da chi lo sostiene e marcia con il pugno alzato.
Abbattere la statua di Colombo senza conoscere la storia atlantica è un gesto che perde totalmente di senso e fa perdere di senso al movimento. Black Lives Matter non vuole dei leader, si vuole muovere a livello di strada e oggi rischia di perdere il focus perché a lui si fa riferimento per parlare di questioni anche molto secondarie, spogliando il suo scopo e virando su una comunicazione superficiale che porta al fraintendimento e alla strumentalizzazione.
Una buona cassa di risonanza per raddrizzare queste storture è quella di chi il microfono in mano ce l’ha per lavoro, come gli artisti. E con loro chi si occupa di immagini, di cinema.
Quando parlo di Jordan Peel come regista e soprattutto del suo “Get Out”
Cerco di mostrare che il suo punto di vista non banale e non ingenuo è quello che serve a noi oggi.
Non è necessario rivedere il Black Power delle pantere nere: oggi ci sono strumenti culturali diversi, meglio sincronizzati con il tempo che stiamo vivendo.
Non è la capigliatura afro o il basco nero, oggi dobbiamo puntare su altri riferimenti oppure crearne di nuovi.
Il rischio che si corre, ora, è quello di vedere che qualcuno alza il pugno e da questo pretende di legittimare con un gesto la sua musica prendendo però le distanze, ad esempio, dal disco funk. E per altro nel disco funk c’erano disseminati un bel po’ di argomenti spinosi per l’epoca.
Mi capita, lavorando in un negozio di dischi, di entrare proprio in queste dinamiche. Ad esempio capita che chi oggi supporta Beyoncé, ai tempi delle Destiny’s Child avrebbe ignorato e forse anche schifato la loro musica.
Poi accade molto spesso che la stessa Beyoncé metta insieme i due mondi, apparentemente lontanissimi tra di loro.
Lei si dichiara donna emancipata, ammette al tempo stesso di essere totalmente immersa nel black capitalism, poi va a Coachella e giustamente piazza sia ‘Freedom’ che ‘Lift Every Voice And Sing’ che ‘Single Ladies’.
E il suo ascoltatore con questa cosa ci deve fare pace.
E oggi Beyoncé forse non sarebbe stata Beyoncé senza i pezzi delle Destiny’s Child così come da un’altra parte non ci sarebbe mai stata ‘What’s Goin’ On’ senza ‘Ain’t No Mountain High Enough’.
Quando nel libro parlo di musica pop(olare) entro in queste zone d’ombra, nelle dinamiche all’interno del mercato discografico (e sottolineo mercato) dove l’obiettivo finale che dobbiamo sempre tenere presente è quello di vendere.
Certo si può far passare un messaggio politico, ma il messaggio deve pur sempre passare dentro un mercato.
Come quanto accaduto per la Blaxploitation.
Certo, film di frontiera, film rivoluzionari per certi versi, ma sempre all’interno di un mercato – quello cinematografico – che puntava a far staccare biglietti alle sale.
Ti confronti con il mercato, ci sei dentro, è ineluttabile.
E noi da questa parte dobbiamo farci pace con questa cosa perché non è l’essere un artista di nicchia che ti legittima nel portare avanti determinate istanze, così come non lo è il contrario.
Su questo argomento noi la dobbiamo smettere.
Bisogna sporcarsi le mani, la storia della musica black è tutta collegata.
Anche facilmente collegabile basandosi semplicemente sui dati biografici piuttosto che artistici.
Sono tutte traiettorie di uomini e donne calati in un contesto storico. Dal Doo Wop al rap, alla musica che esce oggi, sono le traiettorie umane che tracciano la blackness.
E il libro, Blackness, tenta di porre più domande piuttosto che dare risposte.
L’ho concepito come moto generatore di quesiti, è una indagine, un mettere i bastoni tra le ruote a coloro che vorrebbero che tutto fosse andato proprio così come ce lo raccontano gli stereotipi e i cliché cercando di raccontare invece l’orgoglio nero che è – a conti fatti – quello che io intendo per blackness.
Ho scritto ponendomi nella mia solita prospettiva: quella dell’uomo.
Io sono sicuro che c’è una grossa parte di chi popola questo paesaggio di blackness che vuole informarsi, approfondire, non arrendersi ai cliché.
Incontro adolescenti che si approcciano al rap con curiosità e che se guidati attraverso i contenuti che abbiamo disponibili sui media sono certo possano essere stimolati correttamente per andare oltre al dato che arriva loro da YouTube ed entrare in una prospettiva di approfondimento e conoscenza.
Scavare nei contenuti per arrivare al nocciolo. Alla storia degli uomini. Alla blackness.
Se facciamo un salto nel tempo fino a oggi, è facile accorgersi di come la musica afroamericana, soprattutto nell’ultimo ventennio, abbia mostrato di voler recuperare simboli e suggestioni attingendo proprio da quello che è stato definito il suo periodo “classico”. (…) Lo sta facendo, ancora una volta, frullando senza soluzione di continuità ciò che è stato realmente con quello che, invece, si vorrebbe soltanto fosse successo: un bell’abito da sera dal taglio vecchio stile ma, al tempo stesso, perfettamente al passo con i tempi. (…) Un grattacielo che ancora è tutto in via di costruzione, pieno di impalcature e ponteggi, ma che potrebbe venire fuori più bello che mai; o franare miseramente sotto il suo stesso peso. (Carlo Babando, “Blackness”)
Se sei arrivato fino a qui, dopo tutte queste parole, ci vogliono i suoni.
E i suoni sono presi dalle pagine di ‘Blackness’ anche se si fermano più o meno a metà del viaggio (una scelta precisa, quella di fermarsi in questo caso a ‘What’s Goin’ On’ di Marvin Gaye poiché una playlist “ufficiale” c’è e la trovi qui). Per l’altra metà ti serve un sacco di curiosità ma di certo molto di quello che troveresti in una playlist più lunga l’hai già inserito nelle playlist che ascolti di solito.