SLRVLTN Tredici Dieci Venti è andato in onda il 13.10.2020 su Radio Milano International New Vibes.
Qui sotto puoi ascoltarlo quando vuoi dal canale Mixcloud di Radio Milano International:
La playlist di SLRVLTN Tredici Dieci Venti:
Aaron Taylor • Icarus
Alex Harris • Falling For You
Aloe Blacc • All Love Everything
Steffen Morrison • Hold On Lovers
Four Tops • Reach Out I’ll Be There
Street Rat • Holding My Tongue
Adrian Daniel, Asiah • Round Town
Anderson .Paak • Jewelz
Giveon • Stuck On You
Usher • Bad Habits
Trey Songz • Nobody’s Watchin
Otis Kane • Do Or Die
Kyle Lux • Are You In Love?
RILEY • BGE (Big Girl Energy)
Durand Bernarr, Ari Lennox • Stuck
Thomas Dybdhal • A Little Something To Give
Michael Henderson è uno di quegli artisti a cui si bada poco, purtroppo.
Nella musica black senti sempre più spesso nominare (giustamente, eh) i Toto, per fare un nome, che hanno suonato un po’ ovunque ma senti molto meno parlare di Henderson. A meno che tu non stia parlando con qualche appassionato livello “pro” anche negli ambiti della musica black: lui l’ha percorsa in lungo e in largo grazie a un talento veramente speciale.
La sua sintesi parte con la sequenza di nomi con i quali ha collaborato: Marvin Gaye, Aretha Franklin, the Dramatics, Doctor John fino ad arrivare ad essere insieme al suo mentore James Jamerson una delle firme eccellenti dei “bassisti Motown”.
Stevie Wonder lo chiama per suonare con lui dal vivo e una sera al Copacabana di New York all’inizio del 1970 è successa una cosa che può suonare tranquillamente così:
E dopo il concerto, Miles disse una cosa soltanto a Stevie:
E così Michael Henderson finisce in studio, sotto la direzione di Miles Davis, nel periodo tra il 1970 e il 1977 (quello per intenderci di un tipo di Miles elettrico, quello del tributo a Jack Johnson e fino a Dark Magus dove in mezzo c’è “On The Corner” che è una delle meraviglie assolute). Diventa parte della sua band. E quando registrano “On The Corner” in studio conosce Mtume. E cresce, ancora. Fino a diventare l’icona di un certo modo di suonare il basso “fusion”, fino ad entrare nei campioni di Snoop e LL Cool, entrando anche nei pezzi di Jay-Z, Eminem, Notorious BIG e Rick James.
“Sì, perché c’è poco da fare.” pare che Michael abbia detto un giorno a Miles quando Miles era nel suo giorno di buon umore (gli capitava una volta ogni due anni circa) “Vedi, a me fare jazz così con te piace un sacco però sento che per stare bene davvero devo tornare indietro a fare il soul, il rythm and blues, il funky. Magari anche cantare, che con te non si canta mai e fare le canzoni che hanno il groove, che fanno ballare le mie amiche, che fanno il finimondo con i lenti, quelle cose lì”.
E Miles, piano piano, lo lascia andare. Suo malgrado.
E mentre sta chiudendo il suo percorso con Miles è lui che viene arruolato da Norman Connors (che di ritmica se ne intende) per metterlo in “You Are My Starship”. Come voce insieme a Phyllis Hyman e proiettarlo al di fuori del comparto Jazz e successivamente dentro i campioni nei pezzi di Mobb Deep.
In quel disco c’è altro, sempre con la voce di Michael Henderson, e ‘Valentine Love’ viene ad esempio campionata da Frankie Beverly (in ‘Golden Time Of Day’) e da Nas (‘Life Is Like a Dice Game’). Questa cosa, stranamente, fece piacere anche a Miles. Davis.
Micheal Henderson pubblica in rapida sequenza sei dischi in sei anni. Il secondo è “Goin’ Places” dove duetta con Roberta Flack in ‘At The Concert’ e scrive con Ray Parker Jr (un altro che è ovunque, ti sbuca in un sacco di dischi che nemmeno te ne rendi conto) ‘Let Me Love You’. Le tastiere le suona Herbie Hancock.
L’anno dopo è quello di “In The Night Time”, una delle sue zampate creative più apprezzate dal pubblico. Il disco coniuga l’anima funk e asseconda il lato quiet storm.
Micheal Henderson è sempre stato considerato maggiormente per il suo lato romantico rispetto a quello funk, ahimè, rappresentato da una sequenza killer composta da “I Can’t Help It”, “Whip It”, “Happy” e “Wide Receiver”.
Ah, “Wide Receiver”, certo.
Ovvero quel pezzo che ha scritto perché conosceva molti dei Pittsburg Steelers e degli Houston Oilers. E Michael andava a vedersi le loro partite. Soprattutto quando le squadre si confrontavano direttamente. Quella volta l’arbitro fece un errore madornale annullando una meta agli Oilers.
Un dettaglio, in una partita della NFL. Che è diventato un mostro funk.
C’è un salto al 2012, in particolare l’8 Ottobre 2012, da Jimmy Fallon, dove in “Do Not Play List” viene inserito “Slingshot”, il suo disco del 1981. Scelta particolare in quanto il disco è il più romantico di Henderson fino a qui. E ancora più particolare perché avere una menzione da Jimmy Fallon beh è una cosa da superstar (certo, meno da superstar di avere un tuo pezzo cantato da Beyoncé nel set di Coachella, ma Michael sa accontentarsi e va avanti a fare concerti in tutta tranquillità).
Tutto questo per Michael Henderson, di Detroit, che ha iniziato a suonare il basso a 13 anni da autodidatta e ci ha messo tre anni per entrare in Motown e salire sui palchi con le leggende della black music.
Lui, Michael Henderson che ha imparato dai migliori musicisti al mondo, musicisti che potevano suonare senza problemi il jazz, l’r&b e il pop estraendo sempre l’anima dalla musica, di qualsiasi genere di appartenenza. Una visione altissima che va riscoperta attraverso il suo repertorio.
Anche lui uno dei protagonisti di questa nostra sola, unica grande storia perché unisce puntini apparentemente lontanissimi che partono da Miles Davis e arrivano all’Hip-Hop passando dalla fusion e da un sacco di bella musica.
Una selezione (ma piccola) la trovi qui sotto. Se ti incuriosisce, vai avanti e perditi fra le note. E’ sempre una bellissima passeggiata.
Sicuramente riconosci dalle prime battute la musica soul.
Magari non ricordi i titoli, gli interpreti, ma ti sono entrati sotto pelle e canti, fischietti, ti rendi conto che fanno parte di te.
Magari li hai ballati, sotto un tappeto di beat, in un altro contesto.
Dovendo partire da qualche parte, tralascio il gospel, gli anni 50 e il Doo-wop. Parto dai sessanta. Praticamente da quasi sessant’anni fa. Dalla musica soul.
La musica soul è il risultato dell’urbanizzazione e della commercializzazione del ritmo e del blues negli anni ’60.
La musica soul, per inciso, descrive un certo numero di stili basati sul rhythm and blues (diverso, per concezione e periodo storico dall’RnB).
Sin dall’inizio le correnti sono precise e identificabili. Ne cito tre, a rappresentarle tutte.
Dalle parti di Detroit è il suono della Motown, la giovane America, più gonfio e con l’intenzione esplicita di essere interessante per i “bianchi”, studiato da Berry Gordy per essere fruibile e accattivante quando suonato dalle radio mono e in auto.
Un imprenditore, Gordy.
Non solo era lui che dava il “via si stampi” ai dischi dopo averli ascoltati in prima persona, ma era sempre lui che controllava i guadagni e le spese di ogni singolo dipendente della Motown, “perché così non li buttate via i vostri soldi: ve li tengo io, li amministro e ve ne consegno quanto basta per vivere più che degnamente.”
Sarà lui ad opporsi (fortunatamente senza riuscirci) all’uscita di “What’s Goin’ On” di Marvin Gaye.
Qui le canzoni interpretate da Diana Ross, dai Jackson Five, da Marvin Gaye, da Stevie Wonder e da un altro centinaio di artisti escono a ritmi sostenuti e conquistano prima le radio e le classifiche americane, poi l’Inghilterra (grazie alle prime radio pirata come Radio Caroline che viene rappresentata con parecchie licenze nel film I Love Radio Rock).
Certo, noi avremmo tutti voluto cantare melodie più complesse, ma sapevamo perfettamente che in Motown dovevamo stare in una zona di conforto.
Non il nostro, ovviamente, ma quel conforto che ci portava a cantare melodie che potevano essere cantate da coloro che compravano i dischi, soprattutto i ragazzi bianchi (Otis Williams, The Temptations)
Berry Gordy, però, non si faceva scappare le opportunità per parlare delle condizioni dei neri d’America, anche se mascherava le sue denunce all’interno di testi dal doppio significato conditi da “musica dalle buone vibrazioni”.
Ad esempio qui:
One can have a dream, baby
MARVIN GAYE / KIM WESTON
Two can make a dream so real
One can talk about being in love
Two can see how it really feels
One can wish upon a star
Two can make a wish come true, yeah
One can stand alone in the dark
Two can make a light shine through
It takes two, baby
It takes two, baby,
Me and you
You know it takes two
Marvin Gaye e Kim Weston cantano di amore, della coppia che è un sogno che si avvera. Perfettamente in linea con l’audience americana bianca che era il primo riferimento per “la cassa” della Motown.
Marvin Gaye e Kim Weston, qui, cantano anche del sogno di sconfiggere la segregazione in America.
Qualche anno dopo, “What’s Goin’ On” di Marvin Gaye non userà alcuna metafora per la denuncia sociale.
Così come Martha And The Vandellas con la brillante ‘Dancing In The Streets’ diventavano la colonna sonora della rivolta di Detroit del 1967 oppure le Supremes (che più di ogni altro act della Motown dovevano preservare un’immagine adatta al pubblico bianco) che con “Love Child” cantano di un bimbo nato da una relazione extra coniugale e lo portano al primo posto delle classifiche nel 1969.
Il suono di Memphis, della Stax (e della Hi – Records) è invece più cupo, riflessivo, non si cura più di tanto di guardare al lato “pop” della giovane America. Qui sono di casa Otis Redding, Al Green (la cui incredibile storia è stata raccontata proprio recentemente in un piccolo libro), Sam & Dave e Booker T. Jones fra gli altri.
Durante la prima parte degli anni sessanta, la musica soul resta ancorata alle sue radici rhythm and blues in tutta la sua espressione estetica, ma sotto questa forma iniziano a svilupparsi alcuni sentieri diversi che affronteremo una delle prossime volte.
Tuttavia, le figure che l’hanno animata, i musicisti soul, hanno spesso spinto questa musica in direzioni diverse.
Nei centri urbani quali New York, Philadelphia e Chicago la musica si concentra più sulla vocalità e sulle produzioni lisce.
Motown invece ha il suono orientato verso il pop, ottenuto dalla mescola di gospel, rhythm and blues e rock and roll.
Spostandoci più a Sud, la musica è più dura, introduce i ritmi sincopati, i fiati e le voci più dirette e crude, meno “ammaestrate”.
Ogni realtà aveva il proprio set di stile-suono-immagine, dato soprattutto dal fatto che produttori, autori e musicisti fossero i medesimi su tutti i dischi dell’etichetta, spesso alle dipendenze “a chiamata” dell’etichetta: un turno in studio, un giorno libero da concerti, l’intervallo fra due tour erano tutte occasioni per entrare in studio e tentare di uscirne con quattro o cinque “facciate” che sarebbero uscite nel corso della stagione a venire.
Dalle parti di Detroit è il suono della Motown, la giovane America, più gonfio e con l’intenzione esplicita di essere interessante per i “bianchi”, studiato da Berry Gordy per essere fruibile e accattivante quando suonato dalle radio mono e in auto.
Discorso diverso per la Atlantic, terza (nell’ordine di questo post) soul sister.
Non nasce come etichetta soul, è presente dal 1947 e si occupa di Jazz. Almeno fino al 1956 quando inizia a introdurre la “musica popolare” (e fra i tanti c’è anche un certo Ray Charles) e da qui a mettere sotto contratto, fra gli altri, Solomon Burke, Wilson Pickett, Percy Sledge, Donny Hathaway…
In “casa” Atlantic è esemplare Aretha Franklin, figlia di uno dei Reverendi più in vista dell’America nera, amica di famiglia di Martin Luther King e… dedita “alla musica del diavolo” dove con immenso talento rivendica i diritti della sua gente, l’emancipazione femminile e resta regina indiscussa del soul per più di sessant’anni.
Oltre ai nomi altisonanti e ormai colonne leggendarie di questo stile musicale, negli Stati Uniti sono – sempre negli anni sessanta – moltissime le persone che sull’esempio dei grandi fondano le proprie etichette e distribuiscono le produzioni musicali.
Un elenco anche qui parziale (seppur molto esteso) ma interessante è stato recentemente pubblicato dai tipi di Numero Group che ne hanno anche fatto una playlist su Spotify.
Non è mistero che (anche) questa musica debba il proprio successo nella sua configurazione a quarantacinque giri (il termine vintage genitore del moderno “singolo”).
Le ragioni sono fondamentalmente di carattere commerciale.
I quarantacinque giri erano destinati a un pubblico di giovani, sicuramente più propensi ad acquistare e fruire questo genere di musica, ma dotati di minor disponibilità economica rispetto agli adulti.
Non è da sottovalutare il fatto che i primi utilizzatori di musica soul sono gli americani di colore, non la classe media.
Oltre a questo, il “singolo” è sempre stato il formato preferito dalle radio, fondamentali negli anni sessanta per la promozione degli artisti e della musica.
Dalle parti di Detroit è il suono della Motown, la giovane America, più gonfio e con l’intenzione esplicita di essere interessante per i “bianchi”, studiato da Berry Gordy per essere fruibile e accattivante quando suonato dalle radio mono e in auto.
Ai giorni nostri, questa estetica soul “classica” è ancora ben presente in alcune delle espressioni artistiche che intercettiamo.
A volte si tratta semplicemente di tributi, non necessariamente alla ricerca dell’originalità, altre invece ci si trova di fronte all’attualizzazione, alla rilettura di queste coordinate riconducibili agli anni sessanta e riviste con un nuovo entusiasmo.
Join the dots, dicono gli inglesi: unire i puntini. Come i giochi della settimana enigmistica o come alcune uscite discografiche.
Alcune di queste inserite nella playlist, per non interrompere il “mood”.
Ne ho raccolte un po’ in una playlist che trovi qui sotto.
Dovesse mancare la tua preferita non devi far altro che contattarmi e collaborare a questa colonna sonora minimale per la musica soul.