I problemi nell’RnB sono la parte di percorso che ho eliminato dalla volta in cui ti ho accompagnato a fare un giro attorno a questa musica.
Ma per onestà intellettuale devo chiederti lo sforzo di leggere una cosa piuttosto lunga: devo accompagnarti anche nella parte oscura, quella delle cose che secondo me non vanno bene.
Quella dei problemi nell’RnB che poi è quella parte del discorso che, forse, non vuoi sentirti dire.
Un “progresso” che però avrebbe bisogno come non mai di essere gestito, incanalato e presentato.
In che senso?
Nel senso in cui la musica RnB va avanti, si modifica ma il suo DNA resta quello di sempre. E spesso tutta la bordata di migliaia di artisti pronti ogni settimana a farti sentire la loro creazione più nuova si perde nel fresh semplicemente spegnendosi.
Parliamoci chiaro: non è che se è strano allora è bello, avanguardista e ti fa sentire figo se dici di ascoltarlo. Ok, a volte sì, ma soltanto a volte.
Ancora più chiaro: in troppi oggi “dicono” di ascoltare certe cose “che sono l’oggi della cultura black, che sono il domani e il dopodomani della musica e che se non le ascolti e non ti piacciono sei out”.
Balle.
Oggi c’è un grosso problema qui.
Grosso quanto un palazzo e grosso come tutta la storia della musica black stessa.
Anzi, forse i problemi sono più di uno.
Partiamo da qui: i problemi nell’RnB sono nelle produzioni.
Troppo spesso ci troviamo ad ascoltare cose che fanno sanguinare le orecchie per la tanta approssimazione che presentano. C’è un beat, c’è uno strumentale e sopra ci hanno messo uno che fa rap ma che non c’entra niente con quella produzione, semplicemente è un karaoke fatto alla bell’e meglio.
Si sente da lontano che non c’è stata l’idea del progetto, che non c’è stato un lavoro coordinato fra chi ha scritto e realizzato la parte strumentale e chi ha pensato fosse innovativo fare rap mugugnando raccontando un disagio a caso.
L’RnB è un’altra cosa.
Poi arriviamo qui: i problemi nell’RnB dipendono dalle canzoni fresh?
Non è bello che non ci sia una struttura, non sei Berio. E lo chiami RnB non Fanta Jazz o Classica Contemporanea.
Questo dovrebbe già essere sufficiente. Non ci sono la strofa, il ritornello, l’hook e il bridge. Perdi completamente ogni senso dello spazio e della misura. Insomma, anche se dici di essere fresh alla fine sei in pratica solo un po’ di shit.
Bisognerebbe davvero fermarsi un attimo e bilanciare il contesto. Farlo strano non significa farlo bene.
Ad esempio quando Prince decise di fare funk senza il basso ci regalò ‘When Doves Cry’.
Prince era un genio.
Non è che ci siano milioni di geni al mondo, oggi.
Anzi.
E si sente.
I problemi nell’RnB sono anche quelli di chi fa le canzoni per Spotify.
Questo significa che l’artista decide in un momento di infinita stitichezza di distribuire una canzone che dura un minuto e mezzo perché così la gente la ascolta tante volte di seguito e lui va primo in classifica (per quanto le classifiche non contino più nulla, dai, smettetela di farne e di consultarne che oramai sono una roba senza senso).
Allora, caro artista, lascia stare. Spotify paga pochissimo, il tuo pezzo è imbarazzante e dovresti pensare ad altro prima di pubblicarlo.
Tipo a finirlo, per esempio.
Evitando alla musica che in teoria è la tua espressione necessaria di diventare un problema. Tuo, prima che nostro.
Tutte queste cose, tutte, sono presenti nell’RnB oggi. Sono i problemi dell’RnB.
E quello che mi manda ai pazzi è che ci siano pseudo riviste, pseudo esperti che ne parlano come se fossero dei capolavori, delle pagine sublimi di musica celestiale. E ne parlano mostrando le partnership di Tyler The Creator con gli stilisti, di Drake che mette nel video una casa acquistata da Paperon De Paperoni, del fatto che Beyoncé mandi dei fiori a Taylor Swift o che ascolti estasiata Frank Ocean (quando ha in casa Solange, per dire il senso della misura dei guru).
Insomma, ne parlano senza MAI far riferimento alla musica.
Rimane la domanda da mal di testa: non si fa riferimento alla musica perché non la si ascolta, perché è davvero ininfluente e brutta, oppure perché l’importante è DIRE di ascoltare qualcosa per poi ignorarla bellamente fingendosi credibili e intenditori?
Scena madre, esterno giorno.
– Oh senti che stile che ha questo con le scarpe di tizio, si fa fare le foto da caio, lo veste lo stilista sempronio.
_ Sì, ok, ma cosa devo fare? Sentire o passare in rassegna le marche che si mette addosso?
Ecco il problema.
Distanziarsi dall’hype, osservare gli artisti che intraprendono un percorso, che sviluppano la propria arte prendendosi dei momenti di silenzio nei quali si impegnano a cercare quell’esatta dimensione li rappresenti, che prestino attenzione a come scrivono, a cosa scrivono e a come viene prodotto quello che hanno pensato, che abbiano un progetto da portare avanti e non siano alla rincorsa di un ennesimo endorsment fuori contesto.
Di questi ce ne sono tanti, e fanno musica RnB, cercando di farla bene.
Semplicemente, non è giusto che non trovino spazio per il semplice motivo che per quelli fresh è più importante parlare del fatto che Tyler The Creator abbia fatto una canzone mediocre per lo spot della Coca Cola.
Oppure nascondere la testa sotto la sabbia e parlare di Silk Sonic come qualcosa di rivoluzionario e bellissimo quando è mera riproposizione nostalgica di un pezzo di storia della musica black (senti questi qui sotto come sono fresh).
Ah, cari guru, la prossima volta che mi incensate Silk Sonic come la nuova rivoluzione e poi mi dite che i pezzi di Al Green suonano vecchi vi prendo a roncolate, direttamente, così ci sbrighiamo prima.
Oppure gli stessi guru che ancora ritengono H.E.R. una divinità dell RnB anche quando le commissionano pezzi per la Disney che lei porta a casa rifacendosi male a Frozen.
Non è lesa maestà ammettere che un artista fa un passo falso e poi – diciamocelo chiaramente – non è che tutto quello che un artista esprime (no, non uso il termine ‘produce’ perché in questo contesto è anche più orrendo di ‘urban’) sia fondamentale capolavoro futurismo.
E del futuro occupiamocene domani, per incominciare.
Quindi i problemi nell’RnB sono anche i guru, che non sono l’RnB.
C’è una cosa, ancora, da sottolineare, emersa da una delle chiacchierate con Simone Niga.
Per coloro che hanno scoperto soltanto ora Anderson .Paak o la stessa H.E.R. esclusivamente perché sono stati chiamati a cantare con l’artista più “conosciuto” o dalla major cinematografica per eccellenza.
Questo è soltanto un sintomo della quotidianità, un povero rituale che si consuma spesso.
Una quotidianità che dipende in maniera indissolubile dalla superficialità.
Non tanto di chi ascolta, ma di chi scrive e comunica.
Perché – diciamolo senza mezzi termini – la “stampa” (internet, cartacea ormai non esiste più) resta nella propria zona di conforto, rimane un muro di gomma impegnato semplicemente a pubblicare amarcord, ti ricordi quando, le dieci canzoni di, quando Beyoncé ha ascoltato Frank Ocean… Un muro ovviamente calibrato sul prendere clic per far aumentare le viste di quel banner che porta loro due euro al giorno.
Non la si fa, informazione, sui siti qui in Italia.
Si fanno i titoli e poi si pubblica – quando va bene – il minimo indispensabile in una recensione tiepida – possibilmente mutuata dal comunicato stampa che tanto è già scritto – tempestata di popup pubblicitari e distrazioni (le firme che vale la pena di leggere nonostante questo sono poche e le trovi cercando su Google ‘Michele Boroni’).
Quello che dispiace, di questo andazzo servile nei confronti del clic, è che le persone alla fine o non leggono proprio o si accontentano di quel che passa il convento (anche perché quando è gratis figurati se ti prendi la briga di lamentarti) e come fai a dar loro la colpa?
E in questo panorama desolante è difficile per chiunque essere informato, avere una spinta ad essere curioso, perché è importante pubblicare sempre, pubblicare tanto, pubblicare inutile sporcizia spaziale senza considerare minimamente che fare informazione non significa mettere insieme due righe e un link per farci sapere che (prendo ad esempio) “Un matto salì sul palco e morse il sedere a Lou Reed”.
Ma torniamo a noi, più o meno.
La libertà degli artisti è un bene prezioso, è un’energia bellissima. Ma se non viene incanalata si disperde nel nulla.
Ma se le etichette non investono nello sviluppo dei loro talenti finiscono per diventare fresh quanto una foto su Instagram che verrà mangiata in meno di dieci minuti da un algoritmo che la confinerà nell’oblio.
Non è sempre colpa di Spotify, mi pare logico, le colpe di Spotify sono altre semmai.
La smetto qui, scusami ma devo ancora andare a cercare quello che ha attaccato con la colla Pritt Daniel Caesar, Giveon, Khalid, Chance The Rapper, Burna Boy e Martin Luther King (!!!!) al pop nemmeno tanto bello di Justin Bieber in crisi mistica. Qualcuno lo ha anche definito RnB. Segno dei tempi. Tempi che sono confusi, a ogni latitudine.
E qui si rimane perplessi cercando di capire il senso di queste storture fatte passare per dogmi.
Anche se un senso, forse, non c’è.
Read article
Febbraio 3, 2021
SLRVLTN
SLRVLTN Due Due Ventuno
SLRVLTN Due Due Ventuno è andato in onda alla radio in FM, DAB e Streaming su Radio Milano International ed è disponibile on demand qui:
SLRVLTN Due Due Ventuno #sndtrck
ARLO PARKS – Caroline
MIKE POSNER, STANAJ, YOUNG BAE – Momma Always Told Me
RAW SOUL EXPRESS – The Way We Live
RAHEEM DEVAUGHN, THE COLLEAGUES – Mr Midnight
SAM EZEH – Suspension
BRENT FAYIAZ, DJ DAHI, TYLER THE CREATOR – Gravity
SERPENTWITHFEET – Fellowship
ARYA – Feelings In Disguise
SEBA KAAPSTAD – The Kingdom
BRICK – Dazz
DEANTÈ HITCHCOCK, 6LACK – How TF
JAMES VICKERY – Somewhere, Out There
RUFUS & CHAKA KHAN – Any Love
TATE McRAE – Rubberband
PARTYNEXTDOOR – Low Battery
FOR KING AND COUNTRY, LECRAE, THE WRLDFMS TONY WLLIAMS – Amen (Reborn)
SLRVLTN Due Due Ventuno #fuorislrvltn
L’instant classic.
Cioè quel disco che immediatamente diventa imprescindibile e non è per ragioni legate al quanto se ne parli sui social.
Che poi, in questo caso le ragioni sono lontanissime dai social, diciamocelo chiaramente.
Di lei parleranno tutti, è “cool” dire oggi che ‘Collapsed In Sunbeams’ è il disco di cui tutti avevamo bisogno ma nessuno di noi ha mai avuto il coraggio di chiederlo.
Quello che fa del disco di Arlo Parks qualcosa di fondamentale, oggi, secondo me risiede nel lavoro di scrittura. Arlo Parks scrive bene e quelli bravi ti diranno che è il suo storytelling a fare la differenza.
Probabile che questi abbiano ragione, che queste persone ne capiscano un sacco.
La mia prospettiva è sempre lontana, però, dalle logiche di quelli bravi, di quelli cool, di quelli che ne capiscono. Proprio per questo il suo pezzo questa volta è messo in apertura, perché l’apertura è quel momento in cui alla radio non c’è il tempo di allungare il brodo.
Vero, la sua scrittura che spesso si affida al racconto per immagini è bellissima (ma questa cosa l’hanno fatta anche gli U2 nel 1984). Vero anche, forse ancora più vero, che ‘Collapsed In Sunbeams’ lo ascolti e non sai dove collocarlo.
C’è tutta la musica di Arlo Parks, quella che ha ascoltato, quindi ci sono sì Frank Ocean (quando non esagera con l’etereo) e Florence And The Machine, ma ci sono anche i Portishead, King Krule e un sacco di altri matti.
Tutti insieme e soprattutto tutti ben digeriti da Arlo Parks che piazza un disco improbabile e lo fa diventare – spinta solo dal suo talento – una gemma di questo 2021.
A questo punto da Londra è tutto, spazio ad Arlo Parks.
Read article
Dicembre 16, 2020
SLRVLTN
SLRVLTN Quindici Dodici Venti
SLRVLTN Quindici Dodici Venti ha suonato sui 98.2 FM di Radio Milano International, in DAB+ e in streaming. Ora disponibile on demand:
SLRVLTN Quindici Dodici Venti #SNDTRCK
La soundtrack ha spaziato, come al solito, fra l’oggi dei quattro punti cardinali di soul, funk, rnb e hip-hop con qualche sguardo rivolto alla storia.
JARROD LAWSON – Why Don’t You Call Me Baby Anymore
SG LEWIS, RHYE – Time
SAMM HENSHAW – All Good
MARC E. BASSY, BUDDY – Cold
ERICK THE ARCHITECT, LOYLE CARNER, FARR – Let It Go
Puoi seguire Soul (R)Evolution su Instagram: @slrvltn
Gli acronimi. Come C.R.E.A.M. oppure Y.M.C.A. e questa volta N.U.T.S.
Ho accennato durante la puntata al video, alla trasgressione, alla volontà di annullare le barriere, le etichette, i generi, il maschio e la femmina, il bianco e il nero.
In un certo senso un inno alla libertà. Quella di essere sé stessi da una parte e quella di accettare l’altro per quello che è, per come esprime sé stesso.
Una prospettiva che in un certo modo si rifà al sotto testo della disco music prima, delle feste al Loft di New York e poi ancora nei club di Chicago che sono stati la culla della musica house.
Oggi si parla di omofobia, di razzismo, di conformare tutto a uno schema lineare dove ci sono il bene e il male nettamente separati da… un punto di vista.
Oppure di vivere la vita con un sorriso per tutti, imparando anche ad accettare nelle proprie esistenze coloro i quali arrivano soltanto per donare amore.
PS: non l’ho sottolineato, ma lui l’ho conosciuto attraverso la collaborazione con Blood Orange
Read article
Agosto 15, 2020
Stories
Black Music: smettila di chiamarla urban.
Black music: musica creata da musicisti afro americani; le prime sue forme erano canzoni con una linea melodica e un ritmo forte con ritornelli ripetuti.
Sinonimi: musica Afro-Americana
E’ il Webster Dictionary che scrive questo. Quando cerchi “black music”.
Poi alla metà degli anni 70 è arrivato Frankie Crocker, Dj di New York, che ha sdoganato una frase: “un genere musicale definito dalle registrazioni di artisti R&B e soul con un grande appeal trasversale. Si chiama Urban.”
La radio americana sposò questa definizione bislacca soprattutto perché sarebbe stata – secondo la radio americana – più digeribile dagli “inserzionisti” che pensavano (e alcuni pensano, ancora, perché fermi al 1975) che ‘black radio’ sia un termine che non raggiunge un’audience abbastanza vasta.
Ecco quindi che la radio americana ha deciso, prontamente, che i bianchi americani sarebbero stati intimoriti dalla parola “black” e non avrebbero mai seguito quelle emittenti. Di conseguenza quelle radio non avrebbero potuto essere appetibili per gli “inserzionisti” e di conseguenza avrebbero chiuso.
Naif, ovviamente, terribilmente naif, meno aggressiva del blackface ma comunque sconveniente, irrispettosa e – diciamocelo chiaramente – evidentemente discriminatoria.
Perché non ti verrebbe mai in mente di pensare a Bruce Springsteen o ai Beatles come “Non Urban”, dai.
Ma tutto questo c’entra poco con la black music. Piuttosto fermati un momento che ti dico un paio di cose su cosa davvero significhi il termine ‘Urban’.
Anche perché dal 1975 il mondo è cambiato, l’America è cambiata (a volte poco e male, alcuni errori sono ancora qui e non è questo il posto o il momento per elencarli), anche la nostra cultura è (apparentemente) cambiata.
Anche perché la cosiddetta “Gentrificazione” (inglesismo atroce, sia ben chiaro) ha cambiato parecchie cose. Le aree urbane delle città oggi non sono abitate solo da afro americani ma anche da persone benestanti, bianchi e un sacco di altre persone. Insieme.
Non è più vero che le zone “urbane” delle città sono quelle nelle quali si sono rifugiati i più poveri che si sono visti aumentare gli affitti, che hanno visto l’invasione dei ricchi nei loro quartieri e glieli hanno modificati come piace a loro (perché con un po’ di soldi puoi fare anche questo), che hanno visto altre persone appropriarsi della loro cultura e trasformarla secondo i propri schemi. Urban inteso come sfumatura dispregiativa di “periferia”, un modo alternativo e un minimo più gentile di definire un ghetto. Ecco perché Urban è sempre stato un termine infelice. Quindi forse è ora di smetterla di usare quel termine nato male e cresciuto pure peggio e di chiamare le cose con il loro nome.
Black music.
Perché in America esiste il black history month ma non lo urban history month, ad esempio, e poi dovremmo sbarazzarci del MOBO Awards perché il suo acronimo è Music Of Black Origin e cambiarlo in MOUO (che suona malissimo per infilarci Urban).
E poi, che diamine, a chi fa paura la parola black, nero?
Ti fa paura il colore dell’inchiostro quando scrivi con la penna? Ti fa paura l’immagine in bianco e nero? Ma quindi per quale motivo il termine black music dovrebbe suonare offensivo per qualcuno?
Eminem, fa musica black
David Bowie, ha fatto musica black
Phil Collins, ha fatto musica black
Jon B, fa musica black
Average White Band, hanno fatto musica black
La sezione ritmica di Jimi Hendrix, ha suonato musica black.
Elvis Presley, ha fatto musica black (e no non ha inventato lui il rock and roll).
Adesso. Pensa a questa sequenza: rap, R&B, soul, house, rock and roll, quiet storm. È tutta black music. E per prenderla tutta insieme sono quelle due parole lì che devi usare.
Caro Urban, non ci mancherai. Forse non ci sei mai mancato, sei sempre stato un ospite indesiderato del quale volevamo liberarci al più presto. Ci abbiamo messo un sacco di tempo, ma alla fine abbiamo vinto noi.
Ha perso anche la Academy dei Grammy che ha dovuto giocoforza rinnegare la categoria inventata per mantenere in alcuni recinti gli artisti afro americani ben distinti da quelli “caucasici”.
Ha commentato anche Tyler, The Creator:
Non mi piace la parola urban. Per me rappresenta soltanto un modo politicamente corretto di dire negro.