RnB in Anno Domini 2021.
Etichette musicali per complicarci la vita: RnB e Hip-Hop, fra le troppe.
A prescindere dal fatto che personalmente preferisco chiamarla tutta “black music” che poi è la radice da cui arriva tutto e si spinge indietro, più indietro del blues.
Comunque per mettere a fuoco lo scenario parto da due etichette. RnB e Hip-Hop.
Oggi come oggi queste due etichette sono messe spesso insieme, addirittura sovrapposte nella stessa canzone, definendo, in ampia misura, cosa intendiamo per RnB.
Un viaggio che dura da 50 anni e che oggi vede giungere in queste grandi famiglie artisti come Lizzo o The Weeknd.
Alla faccia dei puristi che ahimè sprecano un sacco di tempo in discussioni senza senso e senza uscita su cosa sia o no RnB. Che poi è soltanto un’etichetta, qualcosa di effimero per definire la musica che per sua stessa natura è indefinibile.
Il 1990 è stato uno spartiacque: in America è nata la Hot RnB Singles Chart dopo che per otto anni quel calderone era stato battezzato Hot Black Singles.
Razzista, terribilmente sbagliato, etichetta coniata per relegare quella musica ad un ascolto pressoché consumato da neri.
Tanto che lo stesso RnB si è tolto da quell’etichetta da solo, travalicando gli steccati del colore e puntando alla sua essenza: a quello che comunica, a prescindere dalla melanina dell’artista che sta comunicando.
Grazie a Dio. Anche se ancora per molti il razzismo sistemico vive anche qui. C’è tanto lavoro da fare, ancora.
Che poi inizialmente l’RnB era in commistione stretta con il new jack swing (altra parrocchia ma sempre black music anche qui) ovvero un amalgama creativo fra l’RnB degli anni 80 e la produzione Hip-Hop. Hai presente ‘Remember The Time’ di Michael Jackson?
Arriva il 1995. E con lui anche la dimostrazione che l’RnB poteva essere venduto, e bene, che poteva essere in vetta alle classifiche, e per molto, che poteva essere una musica trasversale e che potesse piacere a neri, bianchi, gialli, viola e anche ai blu.
Nel 1995 esce ‘Fantasy’ di Mariah Carey.
Otto settimane in cima alle classifiche (e nel 1995 le classifiche contavano ancora quanti dischi uscivano, scontrinati, dai negozi) e disco che dà il beneplacito all’uscita e al successo ad esempio di ‘Mo. Money Mo’ Problems’ di Biggie e ‘Crazy In Love’ di Beyoncé con JAY-Z.
Vuoi chiamarlo ancora Pop o ti decidi a chiamarlo RnB?
Secondo me puoi chiamarlo come ti pare, ma di fatto è qualcosa che ha fatto la storia.
Perché poi, qualche anno dopo, arriva anche Rihanna e ci regala ‘Pon De Replay’ e poco dopo ‘What’s My Name’.
Come lo chiami, adesso?
Come la chiami la musica che fanno Justin Timberlake e Alicia Keys all’inizio dei duemiladieci, come le chiami ‘Suit And Tie’ e ‘Girl On Fire’?
Lo sostengo da sempre.
Il bello della musica black è questa capacità di mutare, di assorbire quello che le sta attorno, di spiazzare chi la ascolta con una sfumatura nuova, con un’altra rivoluzione, con un nuovo codice che non ti interessa nemmeno leggere ma adori “sentire”.
Ecco perché è RnB (che resta sempre una piccola misera etichetta) Mariah Carey, lo è Beyoncé, lo è SZA, lo è Justin Timberlake e lo è Frank Ocean, lo è R.Kelly e lo è Miguel.
Il problema di definire alcuni di questi “pop” e altri invece “RnB” è tutto nella tua testa. Se ha successo diventa pop. Niente di più sbagliato. Se non corrisponde ai criteri della musica delle classifiche “black” degli anni ’90 (quando l’RnB era quasi un’altra cosa rispetto ad oggi ed era pop-olare perché stava in cima alle classifiche ed era ovunque).
The Weekend non fa pop (del resto ci sono smaccate differenze fra ‘Blinding Lights’ e una qualsiasi canzone dei One Direction – mi pare) a meno che per “pop” non intendi “popolare”, “riconosciuta dalla massa”, e allora te lo concedo.
Ma poi ti ritrovi con ‘Good Days’ di SZA. E lì c’è anche il neo soul, incorporato nella sua essenza tradizionale. E ti fermi a pensare un attimo a tutto questo.
E improvvisamente ti viene in mente una canzone di Lauryn Hill. Qualsiasi.
Perché il suo album è il posto da cui tutto ha avuto senso, ha avuto inizio, ha avuto il coraggio di uscire con un disco che ha definito quello che oggi chiamiamo ancora RnB. Nonostante RnB sia un concetto ormai diventato soggettivo, sfumato, che non ha contorni e codici specifici a meno che l’utilizzo del melisma* sia cardine per definire una musica.
Il che equivale a dire che se c’è la chitarra allora è rock.
E poi, via, il melisma dal 2007 è diventato roba da boomer: chiedilo a Keyshia Cole o a Leona Lewis, per dirne due.
Quello che interessa, la discussione che sarebbe bello nascesse è quella che non cerca di capire cosa sia successo ma cerchi di capire oggi quali siano le sfumature del presente, quelle sfumature che fra trent’anni andranno a finire su un articolo come questo dove qualcuno continuerà quella serie di nomi.
Mettendoci Gallant, Kenyon Dixon, Avery Wilson, Anderson .Paak, Lianne La Havas, Jazmine Sullivan, Brik Liam, Kori James…
*melisma = ornamento melodico che consiste nel caricare su una sola sillaba del testo un gruppo di note ad altezze diverse. Chiamato anche “ghirigoro” nel mondo del Karaoke. Esempio illustre: Visions Of Love di Mariah Carey o le differenze in I Will Always Love You fra Dolly Parton (senza melisma) e Whitney Houston (il festival del melisma). Si agevolano gli esempi
Mariah Carey:
Dolly Parton:
Whitney Houston:
Whitney Houston è stata una grandissima artista.
Per lo meno per come ce l’hanno fatta conoscere. Un ritratto, quello costruito negli anni, che ha lasciato diversi puntini. Spesso di sospensione.
Alcuni di questi puntini, quelli della trama dietro le luci, dietro i premi, dietro quello che ci è stato “venduto” di Whitney Houston li ha uniti un documentario di Nick Broomfield e Rudi Dolezal “Whitney: Can I Be Me?”
La pellicola racconta, usando alcune performance strepitose di Whitney Houston, una doppia storia. Perché c’è anche quella della cultura americana, della celebrità, delle questioni razziali e dell’autodistruzione. Passate attraverso il prisma di una persona famosa.
Nel documentario è Kenneth Reynolds, direttore marketing della Arista (l’etichetta che ha lanciato e capitalizzato Whitney Houston) ad affermare che per come veniva gestito il repertorio tutte le canzoni che erano “troppo black”, tutti gli atteggiamenti che non erano “standard per gli stereotipi americani trasversali”, suoni che appartenevano in modo deciso alla cultura black, venissero scartati. In favore di tutti quelli che corrispondevano al canone della “Principessa Whitney”.
Il “prodotto” Whitney Houston doveva essere sempre ben compreso nei canoni della ragazzina innocente, non troppo bianca e non troppo nera, che lavorando sodo aveva usato perfettamente talento e disciplina per diventare una splendida regina della musica pop.
A prescindere da tutto il resto e – a quanto pare – a qualsiasi costo.
Una gestione che a conti fatti aprirà la strada ad altre artiste (e mi vengono in mente Mary J. Blige e Beyoncé), ma che pagherà un prezzo altissimo. E lo pagherà Whitney.
Si dice, intanto, che la firma con Arista sia datata 1983 ma il debutto arriverà solo nel 1985.
Due anni di lavoro di “costruzione” non tanto sul talento che è – indubbiamente – cristallino, ma sull’immagine, sull’universo che deve comunicare, sulla “persona” intesa quasi come un alter ego. E durante i quali spuntano le prime crepe in un implacabile confronto fra l'”essere” e l’ “apparire”.
A discapito di introduzioni in cui Whitney è una persona estremamente sofisticata lei si presenta sulle copertine in jeans e t shirt, è a modo nelle interviste, naturale, così come lo è qualsiasi ragazza e non la principessa che veniva loro presentata. Questa era la crepa più evidente, quella che usciva anche in pubblico.
C’è una parte, nel documentario, in cui viene chiaramente portato alla luce il meccanismo inceppato, quel punto in cui Whitney non poteva più nascondere di essere spezzata, dentro, inesorabilmente.
È la lettera di David Roberts, nel 1995, scritta al management nella quale è espressa chiaramente la preoccupazione nei confronti dell’abuso di droghe e dell’influenza malata delle persone che la circondavano. Le cose si mettevano davvero male, bisognava intervenire, era l’unica cosa giusta da fare.
Ma a quel punto per l’entourage sarebbe stato troppo costoso fermare tutto. Fermare i concerti, annullare i tour, recuperare l’essere umano Whitney Houston. Queste persone non se ne curarono e continuarono ad approvvigionarle la droga, fino alla fine, perché era importante staccare i biglietti, vendere i dischi, fare soldi (sì l’hai già sentita anche già avanti questa storia ma non parliamo di Amy, adesso).
David Roberts venne licenziato. Whitney Houston doveva continuare lo show.
Ma qui siamo già praticamente alla fine perché ci sono altri momenti di rottura, gravi, nella vita di Whitney.
Intanto il fatto che per i primi due dischi la comunità nera la rifiutò. Era troppo bianca, era troppo pop, non apparteneva alla loro cultura, su disco le veniva asciugato tutto il soul che lei aveva sul palco, l’immagine era quella di “un prodotto” appunto e non era percepita come vera, reale. Ecco il primo cambio di prospettiva: quello che separa il secondo dal terzo disco. Fuori le cose più pop e dentro Babyface, Luther Vandross e Stevie Wonder. Clive Davis, a capo dell’etichetta discografica, la aiutò in questo senso non ostacolandola, cercando di trovare una mediazione. Funzionò, in parte.
Del resto, lei poteva permettersi di dettare le regole e di dire alcuni “no”, era una macchina da soldi.
E poi c’era ancora al suo fianco Robyn Crawford, la sua assistente e da sempre la sua migliore amica. Una forza positiva che tentava, spesso senza riuscirci, di riportare Whitney a casa.
Come quella volta, nell’edizione del 1989 di Soul Train Music Awards quando si accese il rapporto tra Whitney e Bobby Brown. Quando il pubblico accolse malissimo Whitney, alimentò ulteriormente la ricerca di componenti scabrose nella sua vita privata “perché, del resto, lei è fake e noi vogliamo la verità” (bisognerebbe imparare a lasciarle stare, le persone).
Ma quella sera, quella scintilla, generò una narrazione che metteva tutto a posto: Whitney sposa Bobby Brown – icona del maschio nero che ce l’ha fatta – e quindi la principessa trova il suo principe azzurro. Ma le cose non restano così a lungo quando si spengono i riflettori.
In un colpo solo si cancellano le polemiche sulla blackness, sull’orientamento sessuale, sul rifiuto a cui è stata sottoposta dalla comunità nera. Ma si accendono le luci su un rapporto che nasce da circostanze difficili e non è sano sin dall’inizio all’interno e all’esterno.
La prurigine dei media che li assedia costantemente per alimentare gossip e polemiche, il fuoco incrociato di calunnie, di opinioni non richieste amplificate in tv e sui giornali, le continue accuse rivolte a Whitney in merito al suo rapporto con Robyn, il fatto di diventare Whitney e Bobby genitori anche per spegnere le polemiche e le diffamazioni, le scuse – puerili, sciocche, assurde – relative ai ripetuti adulteri di Bobby Brown, la spirale discendente in cui si pone Whitney Houston per scappare dai propri demoni e arrivando a cancellare spettacoli, rendersi spesso impresentabile, essere arrestata due volte durante il periodo del matrimonio per droga e alcol (lo dirà, Whitney, nell’intervista a cuore aperto con Oprah Winfrey chiarendo anche il fatto che Bobby Brown non usò sistematicamente violenza fisica su di lei ma affermando che la violenza psicologica era invece presente).
E poi c’è stato quell’errore, quel passo falso, quella serie tv, ‘Being Bobby Brown’ dove il boomerang ha fatto ritorno da una parte cancellando quell’immagine di principessa di Whitney Houston destabilizzata anche dall’allontanamento del suo mentore Clive Davis dalla sua etichetta discografica e dall’assenza da ormai cinque anni della spalla amica di Robyn Crawford che se ne andò dal management dopo che Whitney rifiutò di farsi aiutare per uscire dalla tossicodipendenza.
Poi il divorzio da Bobby Brown, la difficilissima ripresa per tornare ad agguantare quel posto che le spettava, la voglia di riscatto e la sua dignità splendida raffigurata dalla performance di ‘I Didn’t Know My Own Strenght’, un capolavoro tardivo ma dal significato assoluto.
La fragilità, il non essere riuscita a farcela, il fato, una serie complicata di cause ed elementi. Quella vasca da bagno, quella sera dell’11 Febbraio 2012, dopo un tour disastroso nel 2009 durante il quale il pubblico contestava apertamente la performance non all’altezza e spesso abbandonava la sala prima del termine dello spettacolo, dopo un’altra dose fatale di solitudine, di attitudine volta all’auto distruzione, di una foto (comprata per 85.000 dollari, scelta male, usata peggio, evitabile) che è diventata una copertina di brutto gusto per un disco che brutto non è.
E di quel tour con l’ologramma, di gusto ancora peggiore della copertina.
Di fatto, quando dietro accadeva tutto questo noi eravamo seduti comodi, in platea, aspettando quell’acuto, quella nota e così distratti e accecati dalla bellezza forse abbiamo perso tutto il “blues” che si consumava dietro.
Forse anche noi non avremmo potuto fare nulla.
Babyface si chiama Kenneth Brian Edmonds e il suo soprannome deve tutto ai suoi tratti somatici e glielo ha dato Bootsy Collins.
Babyface è americano, è un cantante, un autore e un produttore. Nero.
E l’America di Babyface è quella con tutti i suoi status quo tossici.
La famiglia è intesa nello schema madre padre figli. Rigorosamente patriarcale. Famiglia nella quale è assolutamente logico che sia il maschio a comandare, organizzare, decidere. Almeno fino al momento in cui a torto o a ragione finisce in galera.
E allora la moglie, fino a quel momento – per lo status quo – adatta solo a rammendare, a cucinare, a prendersi cura solo dei figli diventa il perno su cui si basa tutta una serie di cose.
Il lavoro, sottopagato perché sei donna e per di più nera. L’istruzione, che per te non è stata ritenuta importante tanto saresti stata una semplice casalinga. L’organizzazione della famiglia con i turni del tuo lavoro sotto pagato e i ragazzi a scuola e poi cresciuti in tua assenza dalle strade. I ragazzi che – volenti o nolenti – prima o poi imboccheranno (a torto o a ragione) la stessa porta varcata dal padre quando non lo videro più tornare a casa.
L’America per i neri, l’America del perbenismo, il Sogno Americano che si disintegra se solo lo guardi bene e fra le righe. Solo perché sei nero. E quindi o giochi a basket e fai l’hiphop o finisci in galera, come dice 2Chainz. Se sei un maschio vero.
In tutto questo tu ti chiami Kenneth e perdi il padre quando sei giovane, sei il quinto dei sei fratelli di casa, sei introverso e timido.
Beh, se sei Babyface forse arrivi anche a scrivere la colonna sonora di Waiting To Exhale.
In questo contesto ci sono i trent’anni di Babyface.
Sembra semplice tracciare una biografia di Babyface seguendo soltanto le nozioni come un elenco puntato di traguardi, riconoscimenti o premi.
Più interessante invece andare a farsi un giro nelle coordinate della sua valenza culturale che arriva in un momento in cui alcuni schemi scricchiolano e altri vengono fatti letteralmente esplodere.
R&B is the one thing that has influenced every kind of music. Every artist that there is, from those that are sung the most to Adele – you know, she was so influenced by so many R&B artists and soul music – it’s clear in her writing that that’s where it comes from. BABYFACE
Sono gli anni 90 ma lo status quo in America è complesso, soprattutto per la gente nera, dicevamo.
Lui timido oltre ogni limite vive il rapporto con le donne della sua vita prima attraverso la scrittura, poi nella vita reale. Con una sensibilità nuova che fa saltare altri schemi. In particolare quello del macho e della mascolinità tossica, quello del dover sempre lasciare in secondo piano la donna nel mondo, quello che come uno schiacciasassi ha minato alla base un’artista come Whitney Houston intrappolata dalle meccaniche dell’industria ad essere nera ma non abbastanza nera quindi gestita in modo da piacere al pubblico bianco in nome del business (come se lei fosse mai stata meno brava se avesse avuto la pelle di un altro colore e finendo per essere rifiutata dal pubblico nero perché lei a loro non sembrava né naturale né onesta almeno fino al 1990), forzando ogni aspetto del suo talento per mettere in mostra un talento solo nella luce che avrebbe fatto comodo allo status quo e alle persone meno oneste che ti erano accanto tutti i giorni, in famiglia.
E ci saranno conseguenze, negli anni 90.
Una rinascita culturale, quella dei 90, il seme di una rivoluzione nella quale apparentemente in modo banale è Kevin Costner a lavorare per Whitney Houston (maschio bianco alle dipendenze di donna nera), è Queen Latifah ad essere la protagonista di Set It Off e la stessa Whitney cambia il paradigma in Waiting To Exhale. Guarda caso con lo zampino di Babyface.
Prima c’è Toni Braxton, introdotta da Boomerang, il film, e da lì nell’Olimpo dell RnB con ‘Love Shoulda Brought You Home’ che è la campanella d’inizio di un’altra storia e di un’estetica nuova, anche a livello culturale perché la storia di Toni Braxton è fatta di vittorie stratosferiche, diritti conquistati, schiena dritta, conseguenze atroci a causa di pregiudizi e disuguaglianze, riscatti e forza d’animo.
Il filo conduttore? L’estetica di Kenny Edmonds. L’estetica dell’RnB e sicuramente di una parte consistente degli anni 90.
Nonostante sia diluita per diventare interessante per il pubblico bianco, la narrazione di Waiting resta una narrazione femminista. Nera. Commentata dalle canzoni di un maschio, nero. Che per riuscire nell’intento è l’unico nome possibile per sensibilità e credibilità di autore che sa come entrare in una canzone che deve essere cantata da una donna e scriverla dalla prospettiva femminile facendo saltare tutti gli schemi dello status quo.
Del resto Babyface lo ha fatto per anni, gli viene naturale entrare nel punto di vista di chi interpreterà quella canzone e scrivere qualcosa che l’interprete possa riconoscere, vivere, trasmettere.
Un cast stellare, perché le donne della colonna sonora di Waiting To Exhale sono già tutte delle star quando vengono chiamate per cantare quelle canzoni. Dentro ci sono Aretha Franklin, Whitney Houston, Patti La Belle, Chuck Khan, Mary J Blige, Toni Braxton e un’emergente Brandy. E lui ha qualcosa da dire per tutte, ha il modo di far sentire tutte loro a proprio agio nelle canzoni. Niente da fare: questa è una cosa che hai oppure non hai. Se ti chiami Babyface va tutto bene. Anche se hai Whitney Houston che ci mette del suo nella selezione delle compagne di colonna sonora e poi tutto deve essere approvato dal regista, dal produttore, da chiunque sia minimamente coinvolto nella produzione della pellicola.
Poi purtroppo il film in Italia vede il titolo tradotto in ‘Donne’, perdendo altra connotazione, ma la storia resta la stessa. A Phoenix in Arizona quattro donne e le relazioni con gli uomini e tra di loro. Tutte impegnate a trattenere il fiato fino al giorno in cui incontreranno l’uomo della loro vita. Sisterhood, la chiamerebbero quelli della strada.
La sensibilità, la vulnerabilità sdoganata di Babyface è l’ingrediente che permette a tutto questo di diventare un simbolo. Ed è questo il cardine sia dell’estetica RnB degli anni 90 che della rivoluzione che ha visto come condottiero Babyface. Un uomo che non ha paura di essere vulnerabile, di mostrarsi vulnerabile, di usare la vulnerabilità per trasformarla in empatia e diventare uno dei più grandi autori di RnB anche per voci femminili.
Questa piccola finestra cela un universo. Questa piccola finestra ti regala soltanto un dettaglio della nostra sola, unica, grande storia. Una piccola porzione degli anni 90 quando ci sono altri schemi che sono saltati in aria, dopo che sono saltati in aria quelli degli anni 70 e degli anni 80 e ancora non sono saltati tutti quelli buttati all’aria da Beyoncé, per dirne una.
È una piccola finestra su Babyface, una delle figure cardine della musica che onora la storia, onora l’arte in sé stessa e contemporaneamente ci regala momenti memorabili quando la suoniamo. Direi che fin qui non è affatto una cosa da poco.
New Jack Swing ovvero quel suono che emerse nella seconda metà degli anni 80 e che ha creato il legame tra hip hop e R&B riportando la musica soul di nuovo sulle strade.
Facciamo il punto della situazione.
Se torniamo agli anni 80 nell’epoca dell’America di Reagan, quella super conservatrice, c’è una dichiarazione di Barry Michael Cooper:
“La gente nera in America è diventata il ceto medio – o almeno così sembra guardando la superficie. Si è avverato quello che diceva The Cosby Show”.
Erano due le icone musicali: Prince e Michael Jackson. E anche se nessuno dei due si esprimesse secondo i canoni dell’ R&B erano riferimenti imprescindibili non solo nella musica ma anche nell’ambito lifestyle.
Così come le polemiche che salutarono il debutto stellare di Whitney Houston, da molti soprannominata “Whitey”. Ciò che le veniva contestato era in larga parte dovuto al modo in cui “l’industria” l’aveva posizionata: loro volevano vendere un’artista nera facendola passare per non-nera in modo da piacere (anche?) ai bianchi. E questo ai neri d’America proprio non andava giù.
Parallelamente stava sbocciando in maniera clamorosa la cosiddetta “golden age” dell’Hip hop fra RUN DMC, LL Cool J, Public Enemy, De La Soul, A Tribe Called Quest e compagnia. Ecco che di conseguenza si sviluppava il problema: come avrebbe fatto l’R&B a sopravvivere a questo urto?
Bisogna pensare Hip Hop ma prima di parlare devi filtrare con il velluto dell’ R&B e riuscire a nascondere qualche spezia pop.
Bisogna inventare il New Jack Swing.
Ed è davvero curioso che sia stata la sorella di Michael (Janet) Jackson a portare ben più in alto della superficie questo nuovo pensiero. La sua collaborazione con artisti che hanno lavorato (tanto) con Prince quali Jimmy Jam e Terry Lewis fa il botto. E chiude quel cerchio partito proprio da MJ e da Prince di cui sopra. Ma è un cerchio che si ripropone, più avanti.
Esce “Control”, è il 1986 e la musica non sarà più la stessa.
Di nuovo.
Perché le parole di “Control” sono quasi tutte scritte da Janet e sono un inno nero, femminista, nell’America di Reagan. E sarà Janet a prendere il posto nella “cultura black” che Whitney non è mai riuscita ad occupare.
Well, the New Jack Swing sound is … It’s so much behind it, but I can tell you in a few words, or a lot of words. New Jack Swing is a sound of music that doesn’t have a color line. And it doesn’t have an expression, it fits the occasion. But it’s a collaboration of rap and singing together. It’s a collaboration of different genres of music and styles that is put together all in one bag. I would say New Jack Swing is heavy R&B, heavy rhythm and blues, all stuck in one bag. (Teddy Riley)
Un bambino prodigio, Teddy Riley, nato e cresciuto ad Harlem che nel 1987 forma un gruppo, Guy, che diventa il simbolo del New jack Swing.
E una settimana dopo questo, arriva l’album di New Edition che hanno preso in mano la musica americana e l’hanno fatta loro grazie alla musica e alle cronache di cui sono stati abili protagonisti (come ad esempio il licenziamento di Bobby Brown dovuto ai suoi modi sul palco e nella vita).
Avanti veloce, fuori Bobby Brown dentro Johnny Gill, 1988, produzione di Jimmy Jam e Terry Lewis. Un cambio nell’economia di New Edition che incorporano Minneapolis e portano lo stile di “Control” più avanti.
E Bobby Brown che fa? Collabora con Babyface e LA Reid regalandoci ‘Don’t Be Cruel’, capolavoro assoluto. Quello che New Edition aveva perso con l’uscita di Bobby Brown era proprio qui, era questo. La dimostrazione che la “band” era più della somma delle parti e che Bobby Brown era riuscito a superare gli ex compagni. Lui, rispetto agli altri che avevano acquisito il talento cristallino di Johnny Gill, aveva insistito sull’attitudine del poco raccomandabile. E aveva messo in fila delle mine che ancora oggi sono importantissime.
I due dischi escono lo stesso giorno: quello di New Edition parla dell’essere cresciuti, quello di Bobby Brown parla di indipendenza. Quello di Bobby Brown ridefinisce, ancora, il New Jack Swing, con la canzone che inizialmente non era prevista nel disco e venne inserita all’ultimo momento. Questa.
E questo tipo di attitudine la ritrovi anche oggi, ad esempio in Trey Songz per citarne uno.
La stessa attitudine che fu presente quella sera quando ai Soul Train Awards fischiarono Whitney Houston e venne gettato il seme per la produzione di “I’m Your Baby Tonight”, della coppia Brown – Houston e di tutto quello che poi è successo.